La plebe, parte II. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte II - Bersezio Vittorio

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accettato, di far prendere e chi teneva le liste di questa sottoscrizione e chi ci aveva dato il nome e di mandarli tutti in cittadella almanco per 15 giorni; ma Sua Maestà, a cui il conte Barranchi ebbe il torto di parlarne prima, volle che non se ne facesse nulla.

      – Ebbene, soggiunse Barnaba, gli è precisamente in casa di questo pittore che abita quel cotale che ho detto.

      – Già; sarà ancor egli un nemico del trono e dell'altare. Ripetetemi un poco il suo nome.

      – Maurilio Nulla.

      – Questo non è nome da cristiano. Scommetto che egli è un nome finto.

      Tacque un momento riflettendo.

      – Però neppur esso non mi è affatto nuovo. In un modo o nell'altro mi deve esser già passato sotto gli occhi. Vediamo un po' qua.

      Sfogliò il grosso libro alla rubrica N e non trovò cenno nessuno di quell'individuo.

      – Ch'egli sia scritto in quell'altro registro dei sospetti e dei puniti per delitti comuni?

      Si alzò, andò a riporre nel forziere il libro che ne aveva tolto, e ne prese un altro più grosso. Lo sfogliò come aveva fatto del precedente, e ad un punto mandò un'esclamazione.

      – To', to'; eccolo precisamente. È un bastardo; fu accusato di avere avvelenati l'uomo e la donna che lo allevarono: stette parecchi mesi in carcere; non si sa troppo di che guadagni egli viva. Poffare! Qui c'è molto probabilmente un bandolo della matassa.

      Barnaba si chinò verso il Commissario, ed abbassando ancora la voce come se avesse paura di essere udito da altri in quello stanzino rimoto le cui pareti erano spesse come quelle d'una fortezza e l'uscio come quello d'una prigione, soggiunse:

      – E questo bandolo gli è tale che forse ci aiuterà a dipanarne due alla volta di matasse. In casa di quel Vanardi si sta complottando qualche cosa contro la sicurezza dello Stato.

      Il Commissario fece un sobbalzo sulla sua seggiola.

      – Alla croce d'Iddio! Barnaba, siete voi certo di quello che dite?

      – Ascolti e giudichi Ella stessa. Di frequente nella settimana convengono in quel luogo parecchi dei più accesi liberali, e primi fra essi Romualdo, Selva, Benda. Si chiudono in una stanza e ci stanno delle ore e delle ore fino a notte inoltratissima il più spesso, senza che la moglie stessa del pittore possa aver mai saputo che cosa facciano o dicano. Dopo siffatte conferenze il Vanardi si mostra inquieto e preoccupato. Non basta. Da alcuni mesi abita in quella casa un cotale che si fa chiamare Medoro Bigonci e si spaccia per cantante; anzi ora egli appartiene alla compagnia del Teatro Regio.

      – Sì: disse il signor Tofi; e ne ho veduto il passaporto io stesso, che ho trovato pienamente in regola.

      – Ebbene, sotto quel finto cantante si nasconde un celebre cospiratore. Egli è Medoro Bigonci come lo sono io: si chiama Mario Tiburzio, è un esule romano, scappato alle carceri papali, uno dei principali agenti dei moti di Rimini: e se Lei vuole saperne di meglio sul conto di lui, consulti le note che riguardo a questo individuo ha trasmesso la polizia di Roma.

      Il Commissario fece un sobbalzo, maggiore di quello che avesse fatto un momento prima.

      – Poffare! Siete voi ben certo di quello che dite?

      – Ne sosterrei la prova del fuoco. Ella che conosce la mia vita passata (nel dire queste parole la voce di Barnaba tremò leggermente) sa che io dimorai alcun tempo in Roma, e cominciai colà ad essere impiegato in questo pubblico servizio. Sono stato io il Delegato che diede l'interrogatorio a costui quando venne preso per la denunzia di due dei complici nella congiura che avevano ordita. Nel tradurlo a Castello, con fortuna pari all'audacia che in lui è grandissima, questo giovane atterrò i due gendarmi che lo accompagnavano, fuggì a tutto un intero corpo di guardia di Svizzeri che si pose ad inseguirlo e scampò meravigliosamente. Fra i nemici del trono e dell'altare, le dico io che questo è uno dei più pericolosi. S'egli è qui, se sta di casa con quei giovani di cui troppo conosciamo le tendenze, se fra essi hanno luogo di quelle segrete e lunghe conventicole, crede Ella che non vi sia sotto qualche perfido disegno contro lo Stato?

      – Avete ragione: disse il Commissario pensieroso. Se mi si lasciasse agire liberamente come vorrei, come il bene medesimo del servizio richiederebbe, la cosa sarebbe la più spiccia del mondo. Farei arrestare tutta questa gente, ed una brava perquisizione ci metterebbe subito in chiaro di tutto. Ma Carlo Alberto – che il Cielo gli conceda un glorioso regno – da qualche tempo ha certe velleità cui non saprei definire altrimenti che chiamandole liberali… Alcuni di simili arresti che ho fatto eseguire ebbe la debolezza ultimamente di chiamare arbitrarii e di muoverne aspri rimbrotti a S. E. il conte Barranchi, il quale di rimbalzo me ne strapazzò come un cane. Andate a servire con zelo e con intelligenza il potere. Io mi trovo colle mani un po' impacciate e non posso pigliar nessuno di questi provvedimenti, senza prima farne motto almeno al conte. Uno intanto non ci scappa certo, ed è il Benda che coglieremo domattina al duello come un merlotto al paretaio. Avuto questo tra mani, chi sa che non abbiamo tanto di buono da tirar gli altri! L'arresto dunque del Benda diventa tanto più importante e quindi conto su di voi per eseguirlo a dovere.

      Barnaba s'inchinò.

      – Eccovi un ordine del generale comandante che mette a vostra disposizione quel numero di carabinieri che crederete; potrete prendere con voi quante di nostre guardie stimerete opportuno. Amo credere che domattina il signor avv. Benda farà colazione in cittadella.

      – Ci conti su: rispose Barnaba, inchinandosi di nuovo; e preso il foglio che gli porgeva il Commissario, uscì per tosto prendere le disposizioni acconcie all'affidatogli mandato.

      Alcune guardie appostò nei dintorni del palazzo di Baldissero, perchè vegliassero sulle mosse del marchesino e cercassero, quando uscisse al mattino, di seguirne le poste; ed egli stesso andò ad appiattarsi presso la casa dei Benda, accompagnato da due carabinieri che fece nascondere più in là affinchè fosse di meglio dissimulata la loro presenza.

      Abbiamo visto come allorchè Quercia disse al cocchiere il luogo dove dirigere la carrozza, Barnaba udisse quelle parole e facesse correre i carabinieri al cimitero dov'era diffatti il convegno dei duellanti, e dove si affrettò egli stesso a recarsi.

      CAPITOLO IX

      Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.

      I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:

      – Per molte ragioni che è inutile accennare – e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve – stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.

      Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.

      Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.

      – Ho

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