La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio
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Lettori umanissimi, ci siamo un po' indugiati per via; ma che farci? Al passato bisognava pur dargli un'occhiata. Chi non ha un passato? Anche al nostro eroe, che fa vita nuova, ritornando ai suoi diciott'anni, occorreva fabbricargliene uno.
Era contento, il signorino. E forse avrebbe dovuto non esserlo tanto, poichè rimaneva a Dogliani la figlia del droghiere, una stupenda biondina, colla quale avea ballato tre volte, e alla quale, una sera, attraverso il cancello dell'orto, aveva giurato un amore immortale. Ma sappiate, o lettori, che il signor Nicolino ci aveva un gran cuore, e che i gran cuori, come tutti i gran vasi, non sono grandi per nulla. Ben altro ci aveva a far capire il signorino, nel suo. Anche alla capitale lo aspettava un amore. Credo che fosse già il terzo; ma badate, non potrei giurar nulla. So che era un amore a mezz'aria, imbastito a teatro, ancora senza certezza di ricambio, e già immortale, come tutti gli altri.
CAPITOLO III
Nel quale si vede nascere un giornale e spuntare la coda d'un segreto
Nell'atrio dell'università, sotto i portici di Po, in piazza Castello, ad ogni tratto il giovane Ariberti s'imbatteva in qualche amico.
–Ah, sei tu, buona lana? E dove hai passate le vacanze?
–Io? Non me ne parlare. A Dogliani, nel «paterno ostello».—(e qui un sospiro lungo tanto rincalzava la frase).—Ma dimmi piuttosto; e tu dove sei stato?
–Ho fatto un viaggio;—rispondeva l'altro, con un'aria dimessa che volea parere modesta;—sono stato in Toscana.—
E lì il Ferrero, che così per l'appunto si chiamava l'amico, a tirar giù una filatessa di tutto quello che aveva veduto a Lucca, a Pisa, a Firenze. Senza andare di una parola più in là d'una guida, trovava il modo di ficcar dentro al discorso tutte le meraviglie dei luoghi veduti, e non la perdonava nemmanco a un muricciuolo; laonde, non è a dire se il povero confinato di Dogliani se ne sentisse venir l'acquolina in bocca. E poi l'amico Ferrero ci aveva le sue considerazioni, i suoi appunti particolari sugli usi, sui costumi e sulla lingua dei figli di Etruria; ricordava i modi, rifaceva la parlata con una grazia tutta sua. All'osteria aveva mangiato il lesso, che corrispondeva alla carne bollita, ahi troppo, della cucina domestica; aveva chiamato tavoleggiante il garzone di caffè; conosceva le uova al tegame, le uova a bere, le uova affogate, le sode e le bazzotte; insomma era diventato un'arca di scienza.
Al caffè dell'Aquila, dov'erano andati i due a sedersi, con tre o quattro amici combinati per via, un altro studente, che era conte e figlio d'un ministro, e che per solito tirava dritto salutando con molto sussiego i compagni, si era degnato di avvicinarsi a loro e di rallegrarli colla sua conversazione, per far sapere a tutti che tornava allora allora di Francia.
–E Lei, dove è stato?—domandava il signor conte, volgendo la parola al nostro Ariberti.
–A Dogliani;—rispondeva questi, avvilito.
–Dogliani! Dov'è?—chiedeva il conte, coll'aria di chi non si raccapezza.—Dalle parti di Mondovì?
–Sì, verso le inospiti Langhe;—soggiungeva un altro della brigata.
–E via, non disprezziamo tanto i nostri paesi;—interruppe il Ferrero.—Ci sono certe ragazze avvistatette, che non fo per dire… Il nostro Ariberti ha da aver fatto strage.
Il conte, strascicando l'erre con quel suo garbo nobilesco:—Quando si va in campagna, non c'è altro modo di vivere, che devastando il pollaio. Ma Parigi…. Parigi….. ecco la vita! Il palazzo Reale! il Rocher de Cancale! la Chaussée d'Antin colle sue donne adorabili! Parlez-moi de ça!
E con una leggiadra giravolta sui tacchi, il signor conte Candioli andò verso il banco, per farsi ammirare dalla padrona, pallida creatura, che aveva letto Ossian e si credeva una specie di Malvina, perchè aveva i capegli di canapa mal pettinata.
–Vedi che sciocco!—disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.—Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre…
–Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?
–In Italia, perdinci, e co' miei danari.
–Vorrai dire di tuo padre.
–S'intende; ma sono andato per mio diporto. Ma perchè non far lo stesso anche tu, scambio di chiuderti in quel tuo guscio di noce? Tuo padre non è ricco abbastanza per farti pigliare un po' d'aria di casa d'altri?
–Che vuoi? Gli sembro troppo giovane, per girare il mondo da solo. Poi, c'era l'esame di ammissione… Infine che ti dirò? Voi fortunati, che avete potuto passare il confine! Noi ce ne siamo rimasti all'ombra nelle nostre montagne, coi nostri cenci campagnuoli dattorno. Non è egli vero, Balestra?—
L'amico chiamato con questo nome rispose con un malinconico cenno del capo, che voleva dire: purtroppo.
–Benissimo; bisogna far strage!—ripigliò.
–Oh, a proposito di cenci,—ripigliò il Ferrero,—che cosa è avvenuto del tuo Bertone?
–Mio!—esclamò l'Ariberti.—Mio come tuo. Tu sai ch'egli è di Mondovì ed io per tutte le vacanze non mi sono mosso da casa. Del resto, che vuoi che abbia fatto? Sarà venuto anche lui.
–Si diceva,—notò il Balestra,—che non avrebbe più continuato gli studi, perchè la famiglia non poteva mantenerlo a Torino.
–Sfido io!—entrò a dire un altro della brigata.—Suo padre fa il maniscalco e una sua sorella va a mezzo servizio nelle case dei signori.
–Del resto,—aggiunse il Ferrero,—a Torino è venuto certamente. Almeno, io lo credo, perchè stamane, quando sono uscito di casa, i cenciaiuoli del ghetto gridavano più allegramente che mai il loro «niente da vendere?»
–Ah, ah! bella, questa!—proruppero in coro gli studenti.—Abbiamo dunque la prova provata.
–Via, non c'è umanità!—disse l'Ariberti, con aria che voleva parer rimprovero, ma che sapeva piuttosto di preghiera.—Che ci può far egli, se è povero?
–Sì, sì, hai ragione;—rispose ghignando il Ferrero;—ma che ci possiamo far noi, se è così sudicio? Spero almeno che quest'anno tu non ce lo vorrai tirare fra' piedi. Con quel coso lì in compagnia, si passerebbe tutti per altrettanti straccioni.—
L'Ariberti non ebbe animo di protestare contro questa nuova maniera d'ostracismo. E non era mica un giovine di cattivo cuore; anzi, bisogna dire che gli rincrescevan assai le parole del Ferrero. Ma in fondo in fondo, o come sarebbe egli stato possibile di sostener l'onore del giubbone color tabacco dell'amico Bertone? Segnatamente là, al caffè davanti al conte Candioli, a quel figurino di Parigi, vestito nientemeno che da Humann, cioè dal primo sartore di tutti i leoni di Lutezia, con giubba, o senza? Perciò l'Ariberti si tenne le sue ragioni in gola e il povero Bertone fu condannato senza forma di processo.
–E che faremo ora?—continuò il Ferrero.—L'anno scorso c'erano certe idee! Ma sì, ad anno così inoltrato, non bisognava pensarci. Ti ricordi, Ariberti, del nostro giornale letterario? Tu avevi già pensato alle module pei registri degli associati.
–Ah sì, sarebbe bene di