Le Tessere Del Paradiso. Giovanni Mongiovì

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Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì

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stare al passo dei nobili a cavallo, correva e immaginava che quella notte, andando dietro a quegli uomini, sarebbe stato possibile agguantare un guadagno maggiore. D’altronde l’aspetto fiero e autorevole di quelli gli dava la certezza che la caduta della tirannia del perfido Ammiraglio si sarebbe concretizzata davvero quella notte.

      Dalle finestre del palazzo dell’Arcivescovo cominciarono ora ad apparire lumi e volti della servitù, gente che sembrava essere già preparata allo spettacolo che stava per consumarsi per le strade di Palermo.

      Percorsero il Cassaro da una parte all’altra costeggiando le mura del Regio Palazzo, passarono il Kemonia e giunsero in prossimità della porta di Sant’Agata. Qui molti di quelli che in precedenza accompagnavano Majone ora fuggivano nelle più disparate direzioni, alcuni incalzati dai rivoltosi. Un cavallo imbizzarrito sbucò dall’oscurità e quasi non travolse Vittore e i suoi, i quali dovettero assottigliarsi alle mura dei palazzi sul bordo della via.

      La scena che si era appena consumata giusto fuori dalla porta era qualcosa che fino a poco prima nessuno avrebbe immaginato. Majone se ne stava disteso al suolo, trafitto dalla spada del capo dei cospiratori, ovvero di quel giovane nobile che aveva interloquito con Amjad nemmeno mezz’ora prima. Questi aveva infatti supposto che in quella carrozza potesse esserci proprio l’Ammiraglio, inconsuetamente privo di scorta dal momento che intendeva filarsela senza dare nell’occhio, spaventato dalla voce di possibili rappresaglie. L’uomo che attentava alla vita di Majone si era sbagliato, tuttavia adesso, riuscito finalmente nel suo intento e attorniato dai suoi fedelissimi, annunciava a gran voce:

      «La tirannide che affliggeva il Regno è caduta, il sangue innocente che quest’uomo ha versato è stato vendicato!»

      Intanto cominciavano ad avvicinarsi uomini e donne della cittadinanza, gente facente parte delle ombre che la notte si aggirano tra il vizio e il malaffare per le vie della città. Il numero divenne sempre più folto minuto dopo minuto e ben presto si diffuse la voce che Matteo Bonello, Signore di Caccamo, aveva ucciso l’Ammiraglio.

      Non appena i nobili che avevano cospirato contro Majone si furono allontanati dal luogo del delitto, il cerchio degli spettatori del popolo si strinse sul cadavere. Alcuni, come sfregio oltre la morte, e potendo permettersi solo questo, presero a sferrare calci sul corpo dell’Ammiraglio. Altri lo ingiuriarono sputandogli e trascinandolo ora a destra e ora a sinistra.

      Vittore, a differenza di molti altri, era rimasto per lungo tempo indifferente di fronte alle malefatte di Majone. Tuttavia l’umiliazione che si era consumata presso la cattedrale era ancora troppo fresca e lui quel tipo di offese non era mai riuscito a digerirle. Per di più Majone rappresentava il potere, quello stesso potere di cui, nella sua immaginazione, faceva parte anche l’eunuco che ostacolava il suo amore con Naila. Sapeva d’altronde che Amjad prima o poi avrebbe cercato la sua vendetta, e dunque, adesso che era arrivato il momento in cui il sovvertimento dell’ordine poteva giocare a suo vantaggio, bisognava cogliere l’occasione al volo.

      Vittore guardò alla sua destra e si accorse che dall’alto dei loro destrieri stazionavano ancora un paio di quelli che avevano dato inizio alla cosa. Questi osservavano curiosi la scena, volendo accertarsi fin dove arrivasse l’odio del popolo. Il venditore di conchiglie concluse che se si fosse messo in evidenza agli occhi di quegli spettatori, si sarebbe fatto degli appoggi importanti per tutelare la sua sopravvivenza di uomo libero e il suo amore per Naila. Dunque si fece avanti e, armato del suo coltello da pescivendolo, si mise all’opera per dilaniare le carni dell’Ammiraglio. Conosceva i tagli con cui si prepara il tonno – la testa, il filetto, la ventresca, la codella – ed ora immaginò Majone come se fosse proprio un grosso tonno. Lo smembrò alla base del collo e degli arti, bagnandosi nel sangue ancora caldo dell’ucciso, intanto che la gente attorno a lui continuava a tirare e strappare, quasi come se il lavoro di Vittore volessero farlo a mani nude.

      «Che le membra di questo maledetto giungano ai quattro angoli della città, dalla Khalesa52 infino al Regio Palazzo, cosicché ognuno veda e sappia che da oggi Palermo acclama un nuovo salvatore!» urlò Vittore, gettando un’occhiata ai due a cavallo.

      «Viva Bonello, Signore di Caccamo!» rispose a tono uno tra la folla.

      Perciò Vittore prese con sé la testa dell’Ammiraglio e si diresse verso il Palazzo Reale, intento a mostrare ad Amjad con chi avesse a che fare. Qui, proprio sulla piazza della cattedrale, la quale si apre alla base dei cancelli del Palazzo, Vittore issò la testa di Majone su un’asta e prese ad urlare:

      «Abbasso la tirannia, viva il Re!» intendendo sottolineare come con il suo gesto non volesse minare il potere regio degli Altavilla, fondamento stesso dell’esistenza del Regno di Sicilia.

      Fu ora che chiese a Duccio e Mamiliano, suoi vicini di banco al mercato e da adesso suoi bracci fidati, di raggiungere la casa di Naila e di portagli la ragazza, affinché l’eunuco Mattia, affacciandosi, comprendesse che ciò che non voleva essere concesso con il suo benestare lui se lo prendeva con la forza.

      Nella notte in cui l’ordine delle cose veniva improvvisamente sovvertito dalla nobiltà invisa all’Ammiraglio, Vittore coglieva l’occasione per sovvertire la sua condizione, quella della povera gente che non può mai cambiare, se non, forse, proprio per mezzo della rivoluzione.

      Capitolo 14

      13 Novembre A.D. 1160, Balermus

      Le torce accese attorno al Palazzo fecero temere alla Regina e ai servitori la rivolta e l’assedio. Margherita di Navarra, la quale aveva sperato per tutta la notte che la nefasta notizia riguardante la morte del suo amato fosse infondata, dovette sorreggersi alle braccia delle sue ancelle quando vide, alle prime luci dell’alba, la testa di Majone infilzata su un’asta. Il suo pianto disperato inquietò gli animi di chi sapeva e confermò il sospetto di chi immaginava; solo il Re, il quale soggiornava in una delle residenze fuori città, poté risparmiarsi la vista delle lacrime che la moglie riversava per un uomo che non era lui.

      Non poté invece tremare Amjad, dal momento che non era a Palazzo, così come Vittore non poté riabbracciare Naila, dal momento che questa non era in casa. Quando il venditore di conchiglie si rese conto, poiché gli fu riportato dai vicini curiosi che avevano assistito all’evento, che quella notte l’eunuco avesse portato via su una carrozza la giovane sorella, il pianto della sua anima non fu meno triste e doloroso di quello della Regina.

      Ad ogni modo c’era da portare avanti l’opera che era cominciata quella notte, e così Vittore continuò a gridare a gran voce che era giunta una nuova era, che il tiranno era stato ucciso e che si avvicinava il tempo in cui non si sarebbero più pagate le tasse. Ovviamente per la maggior parte si trattava di promesse irrealizzabili; in quel momento tanta era la foga che Vittore avrebbe creduto che l’uomo fosse in grado di raggiungere la luna.

      Il subbuglio a Palermo era enorme e presto la nobiltà cominciò a temere che quel tumulto spontaneo generato dall’odio per Majone potesse trasformarsi in una rivolta popolare, contro l’indifferenza del Re e contro l’aristocrazia che affama. Così, tre giorni dopo i primi fatti di sangue, Matteo Bonnel, conosciuto come Bonello, l’uomo che aveva ucciso l’Ammiraglio e che intanto si era rifugiato nella sua Caccamo, inviò delegati per parlare ai capi del popolo, affinché quella sollevazione non si trasformasse in qualcosa di violento e incontrollato. Poco prima di mezzogiorno un tale Manfredo, accompagnato da altri tre, si fece largo tra la folla e giunse al cospetto di Vittore, il quale in quei giorni aveva sfilato per le vie della città per poi ritornare innanzi al Regio Palazzo numerose volte.

      «Credo che coloro che osservano da oltre i cancelli del Palazzo abbiano ricevuto il messaggio. Date riposo a quella testa e venite con me.» esordì l’uomo che sosteneva Bonello.

      Vittore riconobbe immediatamente nel giovane

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Khalesa: in arabo letteralmente “la pura”, “l’eletta”. In epoca islamica la Khalesa era la cittadella fortificata dell’emiro e si trattava di una zona separata dalla parte vecchia della città. Ancora oggi il rione o mandamento che corrisponde all’antica Khalesa si chiama Kalsa.