Spagna. Edmondo De Amicis
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Edmondo De Amicis
Spagna
Pubblicato da Good Press, 2020
EAN 4064066071967
Indice
SPAGNA.
I.
BARCELLONA.
Era una mattina piovosa di febbraio, e mancava un'ora al levar del sole. Mia madre m'accompagnò fin sul pianerottolo, ripetendomi in fretta tutti i consigli che mi soleva dare da un mese; poi mi gettò le braccia al collo, diede in uno scoppio di pianto, e disparve. Io rimasi un momento là col cuore stretto, guardando la porta quasi sul punto di gridare:—Apri! Non parto più! Resto con te!—poi mi cacciai giù per le scale, come un ladro inseguito. Quando fui nella strada, mi parve che tra me e casa mia si fossero già stese le onde del mare, e alzate le cime dei Pirenei; ma benchè da tanto tempo aspettassi quel giorno con impazienza febbrile, non ero punto allegro. Incontrai alla svoltata d'una strada un medico mio amico che andava all'ospedale, e ch'io non aveva visto da più d'un mese; mi domandò: “Dove vai?”—“In Spagna,” risposi. Non mi voleva credere, tanto il mio viso accigliato e melanconico era lontano dall'annunziare un viaggio di piacere. Per tutta la strada, da Torino a Genova, non pensai che a mia madre, alla mia camera che restava vuota, alla mia piccola biblioteca, alle care abitudini della mia vita casalinga, alle quali davo un addio per molti mesi. Ma giunto a Genova, la vista del mare, i giardini dell'Acquasola e la compagnia di Anton Giulio Barrili, mi restituirono la serenità e l'allegrezza. Ricordo che mentre stavo per scender nella barca che mi doveva condurre al bastimento, mi fu data una lettera da un fattorino d'albergo, nella quale non erano che queste parole: «Tristi notizie di Spagna. La condizione d'un italiano a Madrid, in tempi di lotta contro il Re, sarebbe pericolosa. Persisti a partire? Pensaci.» Saltai nella barca, e via. Poco prima che il bastimento partisse, vennero due uffiziali a dirmi addio: mi par ancora di vederli ritti in mezzo alla barca, quando il bastimento cominciava a muoversi.
“Portami una spada di Toledo!” gridavano.
“Portami una bottiglia di Xères!”
“Portami una chitarra! Un cappello andaluso! Un pugnale!”
Di lì a poco non vidi più che i loro fazzoletti bianchi, e udii il loro ultimo grido; tentai di rispondere, ma la voce mi restò strozzata a mezza gola; mi misi a ridere, e mi passai una mano sugli occhi. Poco dopo mi rintanai nel mio bugigattolo, e addormentatomi d'un sonno delizioso, sognai i consigli di mia madre, il portamonete, la Francia, le Andaluse. All'alba saltai su, e salii subito a poppa: eravamo a poca distanza dalla costa, era già costa francese, il primo lembo di terra straniera, ch'io vedeva: curiosa! non potevo saziarmi di guardare, e mille vaghi pensieri mi giravano per la testa, e dicevo: è la Francia? ma davvero? Son proprio io che son qui? Mi venivan dei dubbi sulla mia identità. A mezzogiorno si cominciò a vedere Marsiglia. La prima vista d'una gran città di mare dà come una sorta di stordimento, che uccide il piacere della meraviglia. Vedo, come a traverso d'una nebbia, un'immensa foresta di navi, un barcaiuolo che mi porge la mano parlandomi non so che gergaccio incomprensibile, una guardia doganale che mi fa pagare, non so in virtù di che legge, deux sous pour les Prussiens; poi una oscura camera d'albergo; poi strade lunghissime, piazze sconfinate, un viavai di gente e di carrozze, drappelli di zuavi, divise militari sconosciute, migliaia di lumi, migliaia di voci, e infine una stanchezza e una malinconia profonda, che finisce in un sogno penoso. L'indomani mattina all'alba ero in un carrozzone della strada ferrata che va da Marsiglia a Perpignano, in mezzo a una diecina d'ufficiali degli zuavi, arrivati il giorno innanzi dall'Affrica, chi colle gruccie, chi col bastone, chi con un braccio al collo; ma allegri e chiassoni come scolaretti. Il viaggio era lungo: bisognava pur cercar di discorrere; però, con tutto quello che avevo inteso dire della bile che hanno i Francesi con noi, non m'arrischiavo ad aprir bocca. Baie! Mi diresse la parola un di loro, si appiccò discorso: “Italiano?”—“Sì” fu una festa; tutti, tranne uno, aveano combattuto in Italia; uno era stato ferito a Magenta; cominciarono a raccontar aneddoti di Genova, di Torino, di Milano, a domandarmi mille cose, a descrivermi la vita che menavano in Affrica. Uno tirò in ballo il Papa. “Ahi!” dissi tra me. Che! Era più buzzurro di me: diceva che dovevamo trancher le nœud de la question, e andar fino in fondo senza darci pensiero dei rurali. Intanto, via via che ci avvicinavamo ai Pirenei, mi divertivo ad osservare il progressivo alterarsi della pronunzia nei viaggiatori che salivano nel carrozzone, a vedere come la lingua francese moriva, per così dire, nella lingua spagnuola, a sentire come la Spagna ci veniva incontro; fin che giunto a Perpignano, e cacciatomi in una diligenza, udii i primi: Buenos dias e Buen viaje, schietti e sonori, che mi fecero un piacere infinito. A Perpignano però non si parla spagnuolo, ma un dialettaccio misto di francese, di marsigliese e di catalano, che strazia