Spagna. Edmondo De Amicis

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Spagna - Edmondo De Amicis

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il mare, una corona di colli, e ogni cosa si mostra e sparisce in un punto, e voi rimanete sotto la tettoia della stazione col sangue sossopra e la testa confusa.

      Una diligenza grande quanto un carrozzone della strada ferrata mi trasportò all'albergo più vicino, nel quale, appena entrato, sentii parlare italiano. Confesso che ne provai un piacere, come se mi fossi trovato a una sterminata lontananza dall'Italia, e dopo un anno di viaggio. Ma fu un piacere che durò poco. Un cameriere, quello stesso che avevo sentito parlare, mi accompagnò su in una camera, e poichè s'era accorto dal mio sorriso che dovevo essere suo compaesano, mi domandò con bel garbo:

      “Finisce di arrivare?”

      “Finisce di arrivare?” domandai alla mia volta stralunando gli occhi.

      Occorre notare che in spagnuolo il modo acabar (finire) di fare una cosa, corrisponde al modo francese venir de la faire. Su quel subito non capii che cosa volesse dire.

      “Sì,” rispose il cameriere, “domando se il cavaliere discende ora medesimo dal cammino di ferro?”

      “Ora medesimo! cammino di ferro! ma che razza d'italiano parli, amico mio?”

      Rimase un po' sconcertato. Seppi poi che a Barcellona v'è un gran numero di camerieri d'albergo, di fattorini da caffè, di cuochi, di servitori d'ogni genere, piemontesi, la maggior parte della provincia di Novara, che andarono in Spagna da ragazzi, e che parlano codesto gergo orribile, misto di francese, d'italiano, di castigliano, di catalano, di piemontese, non con gli Spagnuoli, s'intende, perchè lo spagnuolo lo hanno imparato tutti; ma coi viaggiatori italiani, così, per vezzo, per far vedere che non hanno dimenticato la lingua patria. Per questo sentii poi dire da molti catalani: “Eh! tra la vostra lingua e la nostra c'è poca differenza!” Sfido io! Potrebbero anzi dire quello che mi disse con un tuono di benevola alterezza un corista castigliano, a bordo del bastimento che mi portava cinque mesi dopo a Marsiglia:—La lingua italiana è il più bello dei dialetti che si sian formati dalla nostra.—

      Appena ebbi fatto sparire le traccie che l'horrible nuit della traversata dei Pirenei mi aveva lasciato addosso, mi slanciai fuor dell'albergo, e mi misi a batter le strade. Barcellona è, all'aspetto, la città meno spagnuola della Spagna. Grandi edifizi, dei quali pochissimi antichi, lunghe strade, piazze regolari, botteghe, teatri, caffè ampi e splendidi, e un andirivieni continuo di gente, di carrozze, di carri, dalla riva del mare al centro della città, e di qui ai quartieri estremi, come a Genova, a Napoli, a Marsiglia. Una larghissima e diritta strada, detta la Rambla, ombreggiata da due file d'alberi, attraversa quasi per mezzo la città, dal porto in su; uno spazioso passeggio, fiancheggiato di case nuove, si stende lungo la riva del mare, sur un alto argine murato a modo di terrazza, contro il quale si vanno a rompere le onde; un vastissimo borgo, quasi una città nuova, si stende al settentrione, e da ogni parte nuove case rompon la cinta antica, si spandono pei campi, alle falde delle colline, si allungano in file sterminate fino ai villaggi vicini; è su tutti i colli circostanti sorgono ville, e palazzine, e opifici, che si disputano il terreno, si pigiano, fan capolino l'uno dietro l'altro, e formano intorno alla città una grandiosa corona. In ogni parte si fabbrica, si trasforma, si rinnova; il popolo lavora e prospera, Barcellona fiorisce.

      Eran gli ultimi giorni di carnevale. Le strade eran corse da lunghe processioni di giganti, di diavoli, di principi, di mori, di guerrieri, e da uno stormo di certi figuri, che avevo la disgrazia d'incontrar da per tutto, vestiti di giallo, con una lunga canna in mano, in cima alla quale era legata una borsa che andavan cacciando sotto il naso di tutti, nelle botteghe, nelle finestre, fino ai terrazzini del primo piano delle case, domandando un'elemosina, non so in nome di chi, ma destinata probabilmente a pigliar qualche classica sbornia nell'ultima notte di carnevale. La cosa più curiosa ch'io vidi è la mascherata dei bambini. Si usa vestire i bambini al di sotto degli ott'anni, quali da uomini, alla moda francese, in completo assetto da ballo, con guanti bianchi, gran baffi e gran zazzera; quali da Grandi di Spagna, coperti di nastri e di ciondoli; quali da contadini catalani con la berrettina e la manta. Le bimbe, da dame di Corte, da amazzoni, da poetesse con la lira e la corona d'alloro; e gli uni e le altre, poi, col costume delle varie provincie dello Stato, chi da giardiniere di Valenza, chi da gitana andalusa, chi da montanaro basco, i più bizzarri e pittoreschi vestiti che si possano immaginare; e i parenti li conducon per mano alla passeggiata, ed è come una gara di buon gusto, di fantasia e di lusso, alla quale il popolo prende parte con molto diletto.

      Mentre cercavo la via per andare alla cattedrale, incontrai un drappello di soldati spagnuoli. Mi fermai a guardarli, raffrontandoli colla pittura che ne fa il Baretti, quando racconta che lo assalirono nell'albergo, e uno gli prese l'insalata nel piatto, e un altro gli strappò di bocca la coscia di pollo. Bisogna dire che d'allora in poi sono molto cangiati. A prima vista, si piglierebbero per soldati francesi, chè hanno anch'essi i calzoni rossi e un cappotto bigio che scende fino al ginocchio. La sola differenza notevole è nella copertura del capo. Gli Spagnuoli portano un berretto d'una foggia particolare, schiacciato sul di dietro, incurvato sul dinanzi, munito d'una visiera che si ripiega sulla fronte, di panno bigio, duro, leggero e grazioso alla vista, e chiamato col nome dell'inventore, Ros de Olano, generale e poeta, che lo modellò sul suo berretto da caccia. La maggior parte dei soldati ch'io vidi, tutti di fanteria, eran giovani, bassetti di statura, bruni, svelti, puliti, come si suole immaginare che siano i soldati d'un esercito che ebbe altre volte le fanterie più leggere e più vigorose d'Europa. Oggi ancora i fantaccini spagnuoli hanno fama di instancabili camminatori e di corridori lestissimi; sono sobrii, fieri, e pieni d'un orgoglio nazionale del quale è difficile formarsi un'adeguata idea senz'averli conosciuti da vicino. Gli ufficiali portano una tunica nera e corta, come quella degli ufficiali italiani; che sogliono, fuor di servizio, tenere aperta, mostrando un panciotto abbottonato fino al collo. Nelle ore di libertà, non cingon la spada; nelle marcie, così come i soldati, portano un par di ghette di panno nero, che giungon fin quasi al ginocchio. Un reggimento di fanteria, in completo assetto di guerra, presenta un aspetto ad un tempo grazioso e guerresco.

      La cattedrale di Barcellona, di stile gotico, sormontata di torri ardite, è degna di stare accanto alle più belle di Spagna. L'interno è formato da tre vaste navate, divise da due ordini di altissimi pilastri di forma snella e gentile; il Coro, posto nel mezzo della chiesa, è ornato d'una profusione di bassirilievi, di filigrane, di figurine; sotto il Santuario s'apre una cappella sotterranea, sempre illuminata, in mezzo alla quale è la tomba di sant'Eulalia, che si vede a traverso di alcune piccole finestre, aperte intorno al Santuario. La tradizione narra che gli uccisori della santa, ch'era bellissima, prima di darle la morte, vollero vedere il suo corpo nudo; ma mentre stavan per toglierle l'ultimo velo, una fitta nebbia l'avvolse e la nascose a ogni sguardo. Il suo corpo è sempre intatto e fresco come quando era viva, e non v'è occhio umano che ne possa regger la vista; onde un vescovo incauto, che sulla fine del secolo passato, volle scoperchiare la tomba, e scoprire la salma sacra, nell'atto che vi fisse lo sguardo, acciecò. In una piccola cappella a destra dell'altar maggiore, rischiarata da molte fiammelle, si vede un Cristo in croce, di legno colorito, un po' piegato sur un fianco; si narra che quel Cristo fosse sur una nave spagnuola alla battaglia di Lepanto, e che si sia contorto così per scansare una palla da cannone che vedeva venir dritta al suo cuore. Alla vôlta della stessa cappella è sospesa una piccola galea, con tutti i suoi remi, costrutta ad imitazione di quella su cui Don Giovanni d'Austria combattè contro i Turchi. Sotto gli organi, di fattura gotica, coperti di gran tappeti pitturati, pende una enorme testa di Saraceno, colla bocca spalancata, dalla quale, in altri tempi, piovevan confetti ai bambini. Nelle altre cappelle vi è qualche bella tomba di marmo, e qualche pregevole dipinto del Villadomat, pittore barcellonese, del XVII secolo. La chiesa è oscura e misteriosa. Le sorge accanto un claustro, sorretto da grandiosi pilastri formati di sottili colonne, e sormontati da capitelli sopraccarichi di statuette che rappresentano fatti dei due Testamenti. Nel claustro, nella chiesa, nella piazzetta che le si stende dinanzi, nelle stradicciuole che le girano intorno, spira come un'aura di pace melanconica, che nello stesso punto alletta e rattrista, come il giardino di un Camposanto. Un gruppo di orrende vecchie barbute custodisce la porta.

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