Le Novelle della Pescara. Gabriele D'Annunzio
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LA GUERRA DEL PONTE. FRAMMENTO DI CRONACA PESCARESE.
LA VERGINE ORSOLA.
I.
Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la primizia della neve, su tutte le case la neve. Ma in alto grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano sul palazzo di Brina lentamente, s'illuminavano verso la Bandiera. E nell'aria bianca, sul paese bianco appariva ora subitamente il miracolo del sole.
Il viatico s'incamminava alla casa di Orsola dell'Arca. La gente si fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l'ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai clerici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i salmi susurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli al passaggio. Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all'angolo della piazza e si scoprì la zucca inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal forno di Flaiano nell'aria l'odore caldo e sano del pane recente.
Nella casa dell'inferma gli astanti udirono gli squilli, e udirono su per le scale il salire dei vegnenti. La vergine Orsola era sul letto, supina, tenuta dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte, con la respirazione frequente rotta da i rantoli. Posava sul guanciale la testa quasi nuda di capelli, la faccia d'un colore quasi ceruleo ove le palpebre erano semichiuse sopra gli occhi vischiosi e le narici parevano annerite dal fumo. Ella faceva con le mani scarne piccoli gesti incerti, vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, strani segni improvvisi che davano quasi un senso di terrore a chi stava da presso; e nelle braccia pallide le passavano le contrazioni dei fasci muscolari, i sussulti dei tendini; e a volte un balbettamento inintelligibile le usciva dalle labbra, come se le parole le si impigliassero nella fuliggine della lingua, nel muco tenace delle gengive.
Nella stanza si faceva quel silenzio tragico che suole precedere gli avvenimenti supremi, un silenzio dove il respiro dell'inferma e i gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse aggravavano l'attesa della morte. Dalle finestre aperte entrava l'aria pura ed uscivano le esalazioni della malattia. Un vivo baglior bianco si rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell'arco di Portanova: il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava d'iridi all'altezza della stanza. Nell'interno, su le pareti, pendevano grandi medaglie sacre d'ottone, imagini di santi. Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno le braccia, come un idolo barbarico, luceva nella sua veste adorna di mezze lune d'oro. In un angolo, un piccolo altare candido portava un vecchio crocifisso di madreperla, tra due boccali turchini di Castelli pieni d'erbe aromatiche.
Camilla, la sorella, l'unica parente, presso al letto, pallidissima, tergeva le labbra nerastre e i denti incrostati dell'inferma con un lino umido di aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto, guardava il pomo d'argento della bella mazza, le belle corniole incise ch'egli aveva negli anelli delle dita, aspettando. Teodora La Jece, una tessitrice vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta nell'atteggiare a dolore la faccia bianca e lentigginosa, gli occhi d'acciaio, la bocca crudele.
— Pax huic domui — disse il prete entrando. Apparve all'uscio