Le Novelle della Pescara. Gabriele D'Annunzio
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— Come sono debole, Signore!
E guardava curiosa sul pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi cercasse le orme.
IV.
Di questo primo tentativo non disse nulla alla sorella. Quando sentì Camilla rientrare, chiuse gli occhi, stette immobile come una dormiente, provando uno strano piacere in sè di quell'inganno, ricacciando a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del petto e le saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto: tutti i giorni aspettava con un desiderio inquieto l'ora in cui Camilla scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta sul letto, fin che giungeva il rumore del lento discendere; poi si levava, soffocando gli scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti, ai mobili, mettendo gridi di paura sommessi ogni volta che le ginocchia minacciavano di piegarsi, ogni volta che l'equilibrio mancava.
Dal forno di Flaiano a quell'ora saliva quasi sempre l'odore del pane ad irritarla. Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento; provava una tortura mista di voluttà nell'aspirare quella emanazione sana, con la lingua nuotante nell'acquolina e gli occhi vivi di cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto, di mettere da per tutto le mani, traendosi di quà di là con minore lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature di cui Camilla aveva portato seco le chiavi. Una volta, in fondo al repostiglio di un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti golosamente. Da tempo nel regime severo della convalescenza, ella non assaporava un frutto. In quello era un fresco profumo di rosa, il profumo che in certe mele aggrinzite e scolorite si accoglie. Cercò di nuovo nel repostiglio, sperando; ma non trovò se non una specie di siliqua verdognola, chiusa, che doveva contenere forse un gruppo di semi; e la prese, la guardò curiosamente, la nascose sotto il guanciale.
Passava così quell'ora, in segreto, con il godimento acre che danno ai fanciulli in guarigione le cose proibite, le infrazioni degli ordini dottorali, i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato come una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Orsola con un miagolìo familiare o si fermava teso invano a ghermire se fuori volavano su l'arco i colombi. A poco a poco Orsola prendeva amore a quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel tepore del letto, gli sussurrava parole senza nesso, lo guardava lungamente leccarsi con la lingua rosea la zampa, porgere la gola di lucertola alla blandizia, una gola gialliccia che palpitava d'un suono rauco e dolce simile al tubare delle tortore nei boschi. Ella, forse per un naturale ricorso di quel suo misticismo anteriore, amava i bagliori tralucenti dagli occhi dell'animale nella penombra, quegli sprazzi di fosforo, che emanavano da una forma misteriosa e silenziosa nella tenebra.
Camilla vedeva tutte queste strane predilezioni della sorella, con una specie di diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E lentamente, quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si allontanavano per repulsa.
Erano prima vissute in una comunione di abitudini e di sentimenti continua, perchè in loro ogni diversità d'indole e ogni insorgimento si agguagliava e placava nell'unica fede, nel culto infrangibile della deità di Cristo, in quel contemplamento ch'era divenuto lo scopo della vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in loro i legami della consanguineità a poco a poco erano stati coperti e sopraffatti da quelli della comune religione; quindi non mai una espansione di tenerezza le aveva ricongiunte, non mai un abbandono di confidenza e di ricordi o di speranze, come sorelle. Erano correligionarie, erano membri della grande famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il Cielo.
Così che a pena, per la rinnovazione operata prima dalla malattia e dopo dal regime, in Orsola si manifestarono inaspettati atteggiamenti d'indole e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce del comun sangue sopita non si potè levare a contrasto.
V.
I discepoli tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo nascente. Orsola s'era levata dal letto; stava seduta su la sponda, col calore del sole alla nuca ed agli omeri. Nella stanza si sentiva l'odore agro dell'aceto che Camilla aveva versato nei calamai muffiti; e dalle finestre raramente il vento recava gli effluvii delle viole già fiorite su l'arco.
L'infanzia alitò nella stanza come un fiato di quel vento marzolino. Fu prima su l'uscio un sospingersi tumultuoso di piccole teste che volevano sollevarsi le une su le altre per vedere; poi l'esitazione, la timidità, una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena.
Ma la vergine sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo sangue; li chiamava a sè, confondeva i loro nomi che le si affollavano alle labbra, tendeva loro le mani. A uno, a due, a tre, i bimbi si avanzavano, volevano prenderle le mani per metterci la bocca sopra, ridicevano le parole di augurio imparate a casa, ingoiando per la furia le sillabe.
— No, no, non più! — esclamava Orsola, sopraffatta, ma abbandonando le mani a quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare.
— Camilla, tienili, tienili.
Ogni bimbo recava un dono: erano fiori, erano frutta. Le violette avevano subito sparso il profumo nell'aria, e in quel profumo, in quella luce tutte quelle facce infantili invermigliate dal buon sangue plebeo sorridevano.
Poi la lezione, nell'altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a tratti si levava l'ammonimento di Camilla.
— La, le, li, lo, lu...
Negli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o il telaio della Jece sbattere.
— Va, ve, vi, vo, vu...
Allora Orsola s'infastidì. La monotonia de' rumori e delle voci le dava al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancora intorno a sè la respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle vite.
— Bal, bel, bil, bol, bul...
Prese i fiori, li mise in un bicchiere pieno d'acqua per conservarli. Li fiutò poi lungamente, stette con le narici tra quel fresco, chiudendo gli occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d'olfatto.
— Gra, gre, gri, gro, gru...
Una gran nuvola bianca velò il sole. Orsola si accostò alla finestra, si porse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte, Donna Fermina Memma in una roba rosata stava sul balcone, tra i vasi dei garofani; e un gruppo di ufficiali passava sotto a lei ridendo e facendo un tintinnìo di sciabole sul lastrico. Più in là, nel giardino pubblico le piante di lilla erano sul fiorire, la punta del gigantesco pino si piegava al vento. Dalla cantina di Lucitino usciva Verdura, l'eterno ubriaco, barcollando e vociferando.
Orsola si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piazza. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese una leggera vertigine.
— Nar, ner, nir, nor, nur...
Il coro dentro seguitava, ancora, ancora, ancora.
— Pla, ple, pli, plo, plu...
Orsola