Le Novelle della Pescara. Gabriele D'Annunzio
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Orsola stette lì stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione fermentante pe'l buon sole di quaresima e saliente fino a lei. Non si ritraeva ancora; ma come alzò gli occhi, vide in un abbaino sul tetto della caserma un uomo biondo che la guardava e sorrideva. Ella scese dalla sedia a precipizio, più pallida di prima, credendo di sentire la voce di Camilla. Corse nella sua stanza, e si gettò sul letto, sbigottita, senza respiro, come se l'avesse perseguitata qualcuno minacciandola.
VIII.
Da quel giorno, tutte l'ore, tutti i momenti in cui Camilla non era nella casa, la tentazione diabolica la trascinava a quello spettacolo. Ella prima pugnava, vanamente, senza forze, lasciandosi vincere. Andava là con l'ansia sospettosa di chi va a un ritrovo di amore; ci restava lungo tempo, dietro la persiana quasi cadente, mentre i miasmi del lupanare la turbavano e la corrompevano.
Ella spiava tutto, acuendo lo sguardo, cercando di penetrare negli interni, cercando di scoprire qualche cosa tra i garofani che chiudevano le finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d'insetti turbinavano nell'aria. Ad intervalli, quando entrava nel vicolo qualche uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti: femmine discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad offerirsi. L'uomo spariva in una delle porte oscure con l'eletta. Le deluse gittavano scherni e risa dietro la coppia, e si rimettevano all'agguato tra i garofani.
Così nella vergine si accendeva la brama. Il bisogno dell'amore, prima latente, si levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura, un supplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi.
Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite allegrezze le muovevano il sangue, le suscitavan nel petto quasi battimenti d'ale, le inspiravano canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei piccoli fremiti dell'aria che si dilata sotto il sole, una canzone di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi, abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il passaggio carezzevole del velluto d'un frutto maturo. Ella era così librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L'irritazione della continenza, la sovrabbondanza insolita de' succhi, quel distendersi continuo dei nervi sotto gli stimoli la tenevano in una specie di stordimento simile al primo stadio dell'ebrezza. Il passato si dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie: i santi delle mura, le madonne, i cristi crocefissi ignudi, le piccole figure di cera deformi, tutte le cose in torno, prendevano per lei apparenze impure. Da tutte le cose l'impurità emanava e le alitava su la persona, affocantemente.
— Ecco, ora scendo nella strada — diceva ella a sè stessa, non reggendo più.
Poi le mani le tremavano su la porta, nell'aprire. Lo stridore del chiavistello scorrente negli anelli la sbigottiva. Ella tornava in dietro, si gettava sul letto quasi svenendosi, livida, sotto una larva d'uomo.
IX.
La domenica delle Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta; poichè Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al Signore. Quando le campane si misero a squillare, Orsola s'affacciò. Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d'aprile. Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami di olivo.
Ella ora doveva vestirsi in festa: la gente nelle vie l'avrebbe guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese: si chiuse nella stanza, cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni: erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti, che un tempo la crinolina avea forse gonfiate in torno alle anche di una sposa novella; erano lunghi busti con màniche ampie, mantelline color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili d'argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l'uso, goffe, macchiate dall'umido.
Orsola sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano. Non trovava alfine nulla che le andasse alla persona! Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del piede. Le campane sonavano per la terza volta. Ella si mise in furia il consueto abito triste color di cenere, in conspetto di Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.
Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva di ramoscelli; e la candida clemenza della benedizione cristiana si diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina fra la turba dei discepoli, in contro agli osanna del popolo redento. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!
Nella chiesa la folla era immensa, sotto la selva delle palme. Per una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse di popolo, Orsola fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quegli urti e quegli aliti. Ella tentava d'aprirsi un varco: le sue mani incontravano la schiena d'un uomo, altre mani tiepide il cui tocco la turbava. Ella si sentiva sfiorare il volto da una foglia d'olivo, contrastare il passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore dell'incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell'ammasso di cristiani e di cristiane, piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Orsola fanciulle della campagna con palme sul petto, con un riso fuggente nel bianco degli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella sentiva in torno a sè così passare l'amore, poneva il suo corpo tra quei corpi che si cercavano, era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perchè una colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò gli occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall'abbaino della caserma. Dietro, l'urto seguitava: il vapore dell'incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò:
— Procedamus in pace.
E il coro rispose:
— In nomine Christi. Amen.
Era l'annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo. Per istinto, senza pensare, Orsola si attaccò all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si sentì ne' capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l'aveva colta d'improvviso, non vedendo se non un barbaglio dinanzi a sè.
Allora dall'altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo e dolce sul popolo; e una processione candida si svolse nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e cantavano.
X.