Pagine sparse. Edmondo De Amicis

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Pagine sparse - Edmondo De Amicis

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      — A letto, a letto, figliuolo.

      — Padrona, domandavo io, — com'è quel proverbio di Berto, che mi disse stamani? Ne ho bisogno per scriverlo.

      — Berto, rispondeva, — che dava a mangiare le pesche per vendere i noccioli. Vada a letto.

      — Ancora una cosa. Come si chiama il bastone d'Arlecchino?

      — Non mi cava più una parola, nemmeno se mi fa regina di Spagna.

      E non diceva più una parola davvero e io andavo a dormire.

      La mattina per tempo, appena svegliato, risentivo la sua voce: — Su, su! È un sereno che smaglia. Vada a fare un giro alle Cascine!

      Una sera tornai a casa pieno di malinconia e mi buttai sul sofà senza dire una parola. Essa mi venne accanto. Duravo fatica a trattener le lagrime. Mi domandò che cos'avessi. Non volevo rispondere. Insistette, e allora le apersi il mio cuore come a un amico.

      — Ho avuto un dispiacere, — le dissi. — Ho saputo che l'altro giorno, in una casa, hanno detto che i miei scritti sono noiosi e che non farò mai nulla di buono. Io ne sono persuaso e non ho più voglia di studiare. Voglio buttar nel fuoco tutti i miei libri e tornare a fare il soldato. Sono triste, scoraggito e annoiato della vita. Non m'importerebbe nulla di morire.

      La buona donna si sforzò di ridere; ma era intenerita. Cercò di consolarmi e di rimettermi di buon umore; chiamò a raccolta tutti i suoi frizzi, le sue frasi e i suoi proverbi; mi assicurò che i miei libri erano pieni di bei concetti e che avrebbe voluto saperli scrivere lei; mi promise che sarei riuscito un bravissimo scienziato a dispetto dei maligni; mi disse che avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia con chi aveva sparlato di me, per fargli una risciacquata che non trovasse più la via di tornarsene a casa; mi fece bere un dito di vin Santo, mi diede del ragazzo, mi picchiò sotto il mento e gridò: — Su la testa! — Infine mi lasciò rasserenato, dicendo che se le facevo un'altra volta una di quelle scene, il pezzo più grosso che sarebbe rimasto di me, aveva da essere un orecchio, com'è vero che c'è tanto di Biancone in piazza della Signoria.

      Qualche volta però ci bisticciavamo, per cose da nulla, s'intende; per esempio perchè tornavo a casa tardi, e lei mi trovava a ridire, ed io le rispondevo di mala grazia. Allora stavamo una mezza giornata senza scambiare una parola. La sera poi, pensando ch'essa era là in un cantuccio della sua camera, sola, malinconica, al buio, mi pigliava il rimorso, correvo all'uscio e le domandavo per il buco della serratura: — Padrona, come è quel detto di Cimabue che mi disse ier l'altro?

      — Cimabue che conosceva l'ortica al tasto — rispondeva con una voce in cui si sentiva un'improvvisa contentezza.

      — Mi perdona? — le domandavo.

      — Oh buon figliuolo! — rispondeva; — perdoni lei a me, che sono una brontolona e una zotica. Ma veda: glielo dico per il su' bene che non venga a casa tardi perchè.... io non ho mica il diritto di impicciarmi nella sua condotta.... si capisce.... ma ho notato che tutte le sere che viene a casa tardi, e non studia più, la mattina dopo è di malumore.

      — Ha ragione, padrona, ha ragione! Apra la porta e facciamo la pace.

      Essa apriva la porta e non faceva mai in tempo a levarsi il fazzoletto dagli occhi.

      Così passarono sei mesi.

      Un giorno, dopo una settimana intera di preparativi e di esitazioni, mi feci forza e le dissi, guardandola fisso negli occhi:

      — Padrona, io debbo partire da Firenze.

      — Dove va?

      — A casa mia.

      — Va bene. Io terrò le sue camere libere per quando tornerà. Può lasciar qui libri, quadri, carte, come le lascerebbe alla sua famiglia. Prima che ritorni farò mettere la stufa, comprerò un altro seggiolone e se mi salta il ticchio farò cambiare la tappezzeria al salotto. E passeremo il nostro invernetto insieme d'amore e d'accordo, lei a studiare ed io a fare le mie faccenduole. Ah! vedo che almeno negli ultimi anni della mia vita avrò qualche consolazione. Quando tornerà?

      — Cara padrona.... non glielo posso dire.

      — Che forse non tornerebbe più? domandò col viso alterato.

      — Forse non tornerò più!

      Stette qualche momento senza parlare e poi esclamò con voce tremante: — Ma dunque io resterò sola!...

      E tacque di nuovo come per sentir l'eco di quella triste parola.

      Poi nascose il viso nel grembiale e diede in uno scoppio di pianto.

      M'aiutò a fare i miei bauli, volle riporre tutti i libri colle sue mani, non mi lasciò più un momento fino all'ora della partenza. L'ultima notte, verso le undici, mentre scrivevo, picchiò ancora una volta nella parete e mi pregò di avermi riguardo agli occhi. La mattina seguente, quando partii, mi accompagnò fin sul pianerottolo e mi disse colla solita dolcezza: — Lei se ne torna colla sua famiglia; io, povera vecchia, rimango sola. Si ricordi qualche volta di me che le volevo bene come a un figliuolo. Abbia giudizio; continui a studiare e sarà contento. Mentre viaggerà in Spagna e in Francia, io guarderò il suo ritratto, leggerò i suoi libri e pregherò il Signore per lei. Quando morirò, lei si ricorderà che le ho voluto bene e piangerà, non è vero? Ed ora vada, figliuolo, che è tardi; e Dio l'accompagni!

      Le diedi un bacio e discesi per le scale. La povera donna mi mandò ancora un addio rotto da un singhiozzo e poi rientrò nella sua casa vuota e triste.

      Oh buona e cara vecchia! se mi son ricordato di te! In viaggio, ogni volta che ho passata la notte a scrivere in una camera d'albergo, allo scoccare delle undici ho detto tra me, con tristezza: — Oh! se sentissi picchiare nel muro, quanto lavorerei più volentieri! — Ogni volta che scrivo, e rileggendo la mia prosa, la trovo scolorita e senza grazia, dico con rammarico: — Ah! quanto ci corre da quest'italiano a quello della mia padrona di casa! — La sera, quando la mia famiglia è raccolta intorno al fuoco, e tutti ridono e lavorano, io penso col cuore stretto che tu sei sola nella tua stanza, forse al freddo ed al buio, perchè la legna e l'olio sono rincarati. E non mi si presenta mai l'immagine della mia cara Firenze, senza ch'io goda in fondo all'anima pensando che un giorno forse vi tornerò, che andrò a cercarti, che ti troverò ancora, che mi rimetterò a imparare da te la lingua armoniosa e gentile con cui mi rallegravi e mi davi coraggio.

       Indice

      Erano le nove della sera: Teresa ricamava accanto al fuoco, quando udì picchiare leggermente, corse all'uscio e più per abitudine che per diffidenza domandò chi fosse.

      — Io! — rispose una voce aspra. Teresa aperse, entrò un giovane ravvolto in un mantello, si baciarono, e la ragazza gli domandò subito:

      — Che hai, Mario?

      — Perchè questa domanda? domandò il giovane alla sua volta.

      — Perchè non hai detto io come gli altri giorni.

      Mario la guardò un po' senza rispondere, poi buttò in un canto il mantello e il cappello, e s'avvicinò al caminetto. La ragazza

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