Pagine sparse. Edmondo De Amicis
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Teresa aperse il libro che aveva preso poco prima e finse di mettersi a leggere senza badare alle parole di Mario.
— Leggi, leggi, — continuò Mario sorridendo, — chi si contenta, gode. Intanto io farò un pochino di critica al tuo autore. I suoi personaggi son tutti fantocci che recitano la medesima parte, e non ne vien uno in iscena, che non lasci veder sotto la mano del burattinaio. Tre idee tinte di mille colori; ma non più che tre idee. Un manzonismo annacquato, senza coraggiose affermazioni; un ciondolío perpetuo fra il credo e il non credo; un voler far sentire la cosa senza compromettersi colla parola; una doppia paura di far sorridere i miscredenti e di scontentare le mamme pie; un tirar sempre al cuore, a tradimento, quando si dovrebbe tirare alla testa; e persino nella lingua, la persuasione profonda che si debba dare un calcio alle convenzioni, agli scrupoli grammaticali, alle parole illustri, a tutte le formole della lingua scipita, pedantesca, bastarda, che si parla fuor di Toscana; e la vigliaccheria di non farlo per paura di coloro che combattono la proposta del Manzoni, perchè non vogliono ricominciare a studiare.
— Io non me ne intendo di lingua, — disse Teresa; — non ti so cosa rispondere. Ma per quel ch'è dei fantocci, purchè dicano delle cose buone, che importa se si vede la mano? — Così dicendo, rise e gli prese la mano.
— Dir delle cose buone! esclamò Mario. — Vorrei che tu mi dicessi che diritto ho io di dire delle cose buone, io che non ne faccio, e di metterci sotto la mia firma, come se le facessi. Mi ricordo, pochi giorni fa, quando ti dissi che compivo ventisette anni, tu esclamasti: — Ventisette anni! Hai già fatto molto! — Fatto molto! non ho ancora salvato la vita a nessuno, — non ho mai passato trenta notti di seguito al letto d'un ammalato, — non mi sono mai messo a rischio di buscarmi una coltellata per levare una donna dalle mani d'un brutale che la schiaffeggia nel mezzo della strada, — non ho mai fatto dieci miglia a piedi per andar a portare una buona notizia a una famiglia povera, — non mi son mai privato un mese di seguito del sigaro, del teatro e della birra, per fare un regalo a un mio antico maestro elementare che si trova nella strettezza. Ebbene, conosco dei giovani che fecero e che fanno tutte queste cose, e che si vergognerebbero di scriverle, e che quando le leggono scritte da me, mi dicono: «bravo! Lei fa del bene! Beato lei!»
— Vero, e con questo?
— Con questo, quando mi dicono quelle parole, io arrossisco perchè dovrei dirle io a loro; e loro dovrebbero dire a me che sono un impostore.
— E allora, — disse Teresa con un'ironia faceta, di cui Mario non s'accorse; — se scrivendo delle cose morali ti pare di far l'impostore, scrivine delle immorali e vivrai in pace colla tua coscienza.
— No! — rispose Mario — mai. Se volessi anche, non potrei. Su questo punto tu non conosci ancora le mie idee, e te le dico. Da un uomo di genio, di quelli che ti ho definiti poco fa, accetto tutto; creda, non creda, sia ottimista o veda tutto nero, non mi riveli che il bello o non mi mostri che le brutture dei suoi simili e le sue, — dissento, deploro — ma accetto, — o almeno mi rendo ragione del come gli possa parer lecito di scrivere quello che pensa e quello che fa. È un uomo di genio; preferisco averlo com'è al non averlo; anche offendendomi e sconfortandomi, mi fa vedere molte cose sotto una faccia nova; mi costringe a pensare; mi fa, se non altro, ammirare in sè un nuovo stampo d'uomo, e una gradazione di più nell'infinita varietà della natura. Sta bene. Ma che un uomo d'ingegno della seconda sfera, uno di quelli dei quali è dubbio se abbiano fatto bene o no a scegliere la via delle lettere, e che dovrebbero, poichè il mondo può benissimo far di meno di loro, cercare tutti i modi di farsi perdonare l'ambizione che li rode; che uno di questi, dico, abbia la sfacciataggine di gridare al mondo: — Vòltati — per fargli sapere che non crede a nulla, che è divorato dalla bile, che disprezza i suoi simili, che vive fra le sgualdrine e s'ubbriaca; questo, per Dio, non solo non lo ammetto, ma non lo capisco; e non capisco come il pubblico non si stomachi di queste scimmie degli scapestrati di genio, e non se li levi di torno colla scopa.
— Dunque scrivi morale! — disse Teresa — Io non so più che cosa dirti! Dici che sei un impostore! Basta essere onesto per poter scrivere delle sante cose senza fingere. Come potresti scrivere, se prima di metterti a tavolino, dovessi far dieci miglia a piedi per portare una buona notizia a una famiglia povera?
Mario sorrise e scrollò una spalla; e dopo qualche minuto di silenzio, disse:
— Un giorno, a Firenze, passeggiando fuor di Porta Romana, sull'imbrunire, vidi tutt'a un tratto una gran luce dietro un gruppo di case e gente che correva. Presi anch'io la corsa e arrivai dinanzi a una casa che bruciava, in mezzo a una folla che faceva un grande strepito. L'incendio era scoppiato da poco; ma uscivan già fiamme dal tetto e da parecchie finestre, e si sentiva dentro un fracasso spaventoso di travi che cadevano e si spezzavano, e in mezzo alla folla grida di donne e di bimbi, che facevan pietà. Arrivarono in quel momento le pompe e le guardie, e cominciò il solito lavoro di far dare addietro la gente, coll'urlío e il disordine solito. Tutt'a un tratto si sentì un grido straziante e si vide molta gente affollarsi da una parte. Era la solita disgrazia d'una donna che aveva chiuso il bambino in casa per uscire, e che tornava troppo tardi. La voce si sparse in un batter d'occhio. Per fortuna la finestra della camera dava sulla strada; fu portata una scala e appoggiata al davanzale, e una guardia salì. Ma sì! non era ancora arrivata in cima, che uscì un nuvolo di fumo nero e una lingua di fuoco dall'alto della finestra, e il pover uomo si sentì mancare il coraggio. La folla gridò: — Giù! Giù! — La guardia saltò giù; un'altra salì, e ricascò in terra come la prima; cinque o sei uomini si agitavano ai piedi della scala, e nessuno saliva. Intanto la povera donna gettava delle grida orribili, si buttava in ginocchio, si stracciava i capelli, faceva cose da lacerare il cuore. Allora non so che cosa seguì in me; mi si velò la vista, mi balenarono mille pensieri in un punto, quel bambino, mia madre, una gioia immensa; sentii come una voce sovrumana che mi gridò nell'orecchio: — Va! — e nello stesso momento un impulso irresistibile che mi sbalzò quasi ai piedi della scala. Ma là.... mi parve d'essere afferrato di dietro da un artiglio di ferro, e rimasi inchiodato, immobile, trasognato, come uno che si trovi tutt'a un tratto sull'orlo di un precipizio. Mentre guardo intorno e rinvengo in me, un uomo si spicca dalla folla come una saetta, butta in terra una guardia, sale in cima alla scala, dispare nella finestra che pareva la bocca d'una fornace, — si fa un profondo silenzio — l'uomo ricompare — la folla getta un grido — quegli sale sul davanzale, si gira, mette il piede sulla scala, discende e casca in terra spossato.... Aveva portato giù il bambino sano e salvo! Ebbene, è una cosa che seguì molte volte, tu mi dirai. Ah Teresa! ma quella volta ero là, ho visto tutto; — ho visto quella donna quando si slanciò al collo di quell'uomo, — l'ho guardata negli occhi, — ho contato i baci furiosi che gli ha stampati sulla fronte e sul petto, — ho sentito le sue grida — le sento ancora — non credevo che un viso umano si potesse trasfigurare in quel modo, e che delle voci e dei singhiozzi di gioia come quelli là potessero fuggire da questo petto di creta senza spezzarlo! Non credevo che si potesse esser belli, felici, gloriosi, com'era quell'uomo, quando si passò una mano nei capelli strinati — fiutò la mano — e si mise a ridere!
Teresa era commossa.
— Io tornai a casa — continuò Mario, — triste e pieno di disprezzo per me medesimo, come se avessi commesso un'azione vergognosa. Pensavo a quell'uomo, e mi pareva di essere meno che un verme della terra accanto a lui. Pensavo ai miei studî, e alle mie piccole soddisfazioni d'amor proprio, e ogni cosa mi pareva fredda e meschina, al paragone della gioia infinita che m'ero lasciata sfuggire. Rientrai in casa, accesi il lume e mi lasciai cadere sopra una poltrona, dicendo a me medesimo: — Bravo! Ecco il tuo piedestallo! — Sentivo delle voci nella strada, che mi parevano l'eco delle grida della madre e della folla, e da tutte le parti vedevo quella finestra infocata, la scala, l'uomo che saliva. A un tratto, mi cadon gli occhi sul tavolino, c'eran delle carte sparse, non mi ricordavo che fossero, guardai.... Erano pagine d'uno scritto, nel quale dicevo mille belle cose intorno all'amor materno, alla