Pagine sparse. Edmondo De Amicis
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Una mattina sfogliettavo sotto gli occhi d'un mio amico, e in presenza sua, un bellissimo Atlante militare che m'era stato imprestato dalla Biblioteca, e gli dicevo: — Il male, vedi, è che io non posso abbracciare tutte queste carte con uno sguardo solo e mi tocca osservarle una per una. Per afferrar bene il complesso della battaglia, vorrei vederle tutte inchiodate nel muro, in fila, in modo che formassero un solo quadro. — La sera, rientrando in casa.... rabbrividisco ancora a pensarci.... tutte le carte dell'Atlante erano inchiodate nel muro; e per maggior supplizio, la mattina seguente, mi toccò vederlo comparir lui col viso modesto e sorridente d'un uomo che viene a cercare un complimento.
Un'altra mattina lo mando a comprare due ova da far cuocere collo spirito. Mentre è fuori, viene un amico a parlarmi d'un affar di premura. Quel disgraziato rientra; gli dico: — Aspetta; — egli si mette a sedere in un canto, io continuo a parlare coll'amico. Dopo un momento vedo il soldato che si fa rosso, bianco, verde, che par seduto sulle spine, che non sa dove nascondere il viso. Abbasso gli occhi e vedo una gamba della sua seggiola leggiadramente rigata d'una striscia color d'oro che non avevo mai veduta. M'avvicino: è giallo d'ovo. L'infame s'era messo le ova nelle tasche posteriori del cappotto e, rientrando in casa, s'era seduto senza ricordarsi che aveva la mia colazione di sotto.
Ma queste son rose appetto a quello che mi toccò di vedere prima d'averlo ridotto a mettere in ordine la mia camera, non dico come volevo, ma in una maniera che rivelasse, alla lontana, l'uomo ragionevole. Per lui l'arte suprema del metter le cose in ordine consisteva nel disporle l'una sull'altra in forme architettoniche, e la sua grande ambizione era di fabbricare degli edifizi alti. Nei primi giorni i miei libri formavano tutti insieme un semicerchio di torri tremolanti al menomo soffio; la catinella rovesciata sorreggeva una piramide ardita di piattini e di vasetti, in cima alla quale si rizzava alteramente il pennello della barba; i cappelli cilindrici nuovi e vecchi si elevavano in forma di colonna trionfale ad un'altezza vertiginosa. Per il che seguivano sovente, anche nel cuore della notte, rovine fragorose e vasti sparpagliamenti, che, se non fossero state le pareti della camera, nessuno sa dove sarebbero andati a finire. Per fargli capire, poi, che lo spazzolino da denti non apparteneva alla famiglia delle spazzole da testa, che il vasetto della pomata era tutt'altra cosa che il vasetto dell'estratto di carne, e che il tavolino da notte non è mobile da mettervi le camicie stirate, mi ci volle l'eloquenza di Cicerone e la pazienza di Giobbe.
Se della buona maniera con cui lo trattavo, mi fosse grato, se sentisse affetto per me, non l'ho mai potuto capire. Una sola volta mostrò una certa sollecitudine per la mia persona, e la mostrò in un modo stranissimo. Ero a letto, malato da una quindicina di giorni, e nè peggioravo, nè accennavo a guarire. Una sera egli fermò per le scale il mio medico ch'era un uomo ombrosissimo, e gli domandò bruscamente: — Ma, insomma, lo guarisce o non lo guarisce? — Il medico montò in bestia e gli fece una lavata di capo. — Gli è che l'è già un po' lunga! — brontolò lui per tutta risposta.
Altre volte aveva certi frulli, che, invece di rimproverarglieli, come avrei dovuto, non potevo far altro che riderne. Una mattina mi svegliò dicendomi nell'orecchio con un certo suo accento strano: — Signor tenente, chi dorme non piglia pesci.
Un giorno entrò in casa mentre ne usciva un personaggio illustre, e sentì dire da un mio amico, rimasto con me, che quel tal personaggio era una personalità molto spiccata. Quindici giorni dopo, mentre stavo discorrendo con parecchi amici, egli s'affacciò alla porta della mia camera e m'annunciò una visita. — Chi è? — domandai. — È..., — rispose (non si ricordava il nome).... — è quella personalità molto spiccata. — Tutti diedero in uno scoppio di risa, il personaggio sentì, io gli spiegai la cosa, e ne rise anche lui dai precordi.
È difficile dare un'idea della lingua che parlava quel curioso soggetto: era un misto di sardo, di lombardo e d'italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte, verbi all'infinito buttati là a caso e lasciati in aria, che facevano l'effetto del discorso di un delirante. Un giorno mi venne a cercare un amico all'ora del desinare, ed entrando in casa, gli domandò: — A che punto è del desinare il tuo padrone? — Trema! — gli rispose il soldato. — L'amico rimase colla bocca aperta. Quel trema voleva dire termina.
In cinque o sei mesi, frequentando le scuole reggimentali, aveva imparato a leggere e a scrivere stentatamente. Fu la mia disgrazia. Mentre ero fuor di casa, s'esercitava a scrivere sul mio tavolino, e soleva scrivere cento, duecento volte la stessa parola, una parola, per il solito, che il giorno prima aveva sentito pronunciar da me leggendo, e che gli aveva fatto impressione. Una mattina, per esempio, lo colpiva il nome di Vercingetorige. La sera, rientrando in casa, io trovavo Vercingetorige scritto sui margini dei giornali, sul rovescio degli stamponi, sulle fascie dei libri, sulle buste delle lettere, sulle carte del cestino, da per tutto dove aveva trovato tanto spazio da ficcarvi quelle quattordici lettere predilette dal suo cuore. Un'altra volta gli toccava il cuore la parola Ostrogoti e il giorno dopo la mia casa era invasa dagli Ostrogoti. Un giorno lo seduceva la parola rinoceronte e la mattina seguente la mia casa era convertita in un serraglio di bestie feroci. Ci guadagnai però da un altro lato, e fu di poter abbandonare l'uso delle croci che facevo con matite di vario colore sulle lettere che doveva portare a mano a certe persone fisse, perchè non c'era verso di fargli ritenere i nomi; per cui egli soleva dire: questa lettera va alla signora celeste (ch'era mondana), questa al giornalista nero (ch'era rosso), questa all'impiegato giallo (ch'era al verde).
Ma a proposito dello scrivere gliene scopersi una assai più curiosa di quelle che ho citate finora. Si era comprato un quadernino, sul quale copiava, da tutti i libri che gli venivano alle mani, le dediche degli autori ai parenti, badando sempre a sostituire ai nomi di questi, il nome di suo padre, di sua madre o de' suoi fratelli, ai quali s'immaginava di dare in tal modo uno splendido attestato di affetto e di gratitudine. Un giorno apersi il quaderno e vi lessi, fra le altre, le dediche seguenti: — Pietro Tranci (era suo padre, contadino), Nato in povertà, Seppe collo studio e colla perseveranza Acquistarsi un posto segnalato fra i dotti, Soccorrere genitori e fratelli, Degnamente educare i figli. Alla memoria dell'ottimo padre Questo libro intitola L'autore Antonio Tranci, invece di Michele Lessona. In un'altra pagina: — A Pietro Tranci mio Padre Che annunziando al Parlamento subalpino Il disastro di Novara Cadeva svenuto al suolo, E tra pochi giorni moriva Consacro questo Carme, ecc. — Più sotto: — A Cagliari (invece di Trento) Non ancora rappresentata nel Parlamento italiano, ecc. Antonio Tranci, invece di Giovanni Prati.
Quello che mi meravigliava di più in lui, — che non aveva mai visto nulla, — era una assoluta mancanza del sentimento della meraviglia, qualunque cosa, per quanto straordinaria, egli vedesse. Vide, nel tempo che stette a Firenze, le feste per il matrimonio del Principe Umberto; vide l'opera e il ballo alla Pergola (non aveva mai visto un teatro); vide le feste del carnevale e l'illuminazione fantastica del viale dei Colli; vide cento altre cose nuove affatto per lui, che avrebbero dovuto stupirlo, divertirlo, farlo parlare. Nulla di tutto questo. La sua ammirazione non andava mai più in là della solita formola: — Non c'è male. — Santa Maria del Fiore.... non c'è male; la Torre di Giotto.... non c'è male; il palazzo Pitti.... non c'è male. Io credo che se Domeneddio in persona gli avesse domandato che cosa gli pareva della creazione, gli avrebbe risposto che non c'era male.
Dal primo all'ultimo giorno che stette con me, fu sempre dello stesso umore, tra serio ed allegro; sempre docile, sempre stordito, sempre puntuale a capire le cose a rovescio, sempre immerso in una beata apatia, sempre stravagante ad un modo. Il giorno che ricevette il suo congedo, scribacchiò non so quante ore nel suo quaderno colla stessa tranquillità degli altri giorni. Prima di partire venne ad accomiatarsi. La scena della separazione fu poco tenera. Gli dimandai se gli rincresceva di lasciar Firenze. Mi rispose: — Perchè no? — Gli dimandai se tornava a casa volentieri. Mi rispose con una smorfia che non capii.
— Se avrà bisogno di qualche cosa, — disse all'ultimo momento, — scriva pure che mi farà sempre piacere. — Grazie