Pagine sparse. Edmondo De Amicis
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Il miglioramento che s'era operato in me in quel primo mese di vita austera, mi fece persuaso di questa verità, che bisognerebbe pestar bene nella testa a tutti i giovani: che, cioè, noi non ci accorgiamo del danno che fanno all'intelligenza e al cuore i disordini giovanili, anche quelli che paiono, per la loro natura e per la loro misura, più perdonabili; ma che ne fanno, ne fanno, ne fanno. Un giovane d'ingegno vivacissimo e di vita disordinata, col quale un giorno mi trattenni su questo argomento, diceva: — Sì, ammetto, si reggerà un po' meno al lavoro, si scriverà cinque ore invece di dieci; ma l'ingegno non ne può soffrire; un uomo d'ingegno riman sempre un uomo d'ingegno; il lavoro della creazione artistica non può essere turbato. — E che ne sai? gli domandai. Puoi tu accorgerti di tutte le piccolissime alterazioni che si producono nella misteriosa macchina del pensiero? Puoi dire, quando ti si desta nella mente quel tumulto d'idee che precede l'ispirazione, puoi dire che non se ne desterebbe nessuna di più, se il giorno prima non avessi disordinato? Si citano i grandi scrittori che han menato una vita disordinata. Ma chi può dire che i cattivi versi e le pagine scipite che sono uscite anche dalla loro penna, non corrispondano appunto a quei giorni della loro vita in cui non vissero come dovevano? Sappiamo noi se, vivendo in un'altra maniera, non avrebbero fatto un'opera completa di ciò che ci hanno lasciato in frammenti?
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Un giovane che stia solo, se studia, se riman molto in casa, non solo finisce per amare la sua casa, ma per rispettarla; e molte cose che prima non gli parevano, gli paiono dopo una profanazione. Fra quelle quattro pareti dove avete provato tante nobili emozioni, leggendo, scrivendo, fantasticando creature eccelse e grandi amori, vi ripugna, vi umilia lasciar penetrare qualcuno per cui i vostri studî, il vostro ingegno, la parte più eletta di voi, è un argomento di riso o un mistero.
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La gioia che viene dalla fatica è grande, e grande quella che viene dall'ingegno; ma più grande senza paragone è quella che viene dalla fatica dell'ingegno. — Io lavoravo da quasi un anno intorno a quel soggetto; non avevo mai fatto, sopra un soggetto unico, un così lungo lavoro; e perciò mi pareva assai più lungo di quello che ora mi parrebbe. Quando s'ha la penna facile, e molte cose belle da dire (o se non belle, liete), pare che lo scrivere dovrebbe essere un godimento, che la giornata dovrebbe riuscir breve alla furia dell'opera, che l'ora del lavoro dovrebbe essere aspettata con desiderio impaziente. Eppure, erano appena due o tre giorni ogni quindici quelli in cui mi mettevo a tavolino volentieri e scrivevo di vena; tutti gli altri giorni pigliavo la penna collo stesso animo col quale lo schiavo afferra lo strumento del lavoro che lo rifinisce. Certi giorni avrei preferito vangare, spaccar legna, e portar sacchi come un facchino, piuttosto che scrivere. Rimandavo d'ora in ora il momento di cominciare, cercando mille pretesti, come per ingannare me medesimo; e talvolta, per salvarmi dal rimorso di quell'ozio, m'imponevo delle fatiche ch'erano in realtà assai più gravi che quella dello scrivere; come fare una carta geografica, studiare a memoria lunghi squarci di prosa, imparare sterminate filze di vocaboli d'una lingua straniera. Quando non avevo ancora scritto che una cinquantina di pagine del mio libro, mi pareva che, una volta arrivato a metà, avrei tirato un gran respiro e sarei andato innanzi sino alla fine, quasi senza sforzo; e pensavo sempre a quella metà benedetta, come si pensa al termine d'un viaggio pieno di traversie. Ma arrivato che ci fui, non provai nulla di quanto avevo sperato; e rimisi le mie speranze ai due terzi. Quante volte, anche dopo fatto più di mezzo il lavoro, fui tentato di rinunziare a finirlo! Quante volte mia madre, vedendomi in un canto della stanza colle braccia incrociate e gli occhi fissi, mi domandò: — Ebbene, a che punto siamo? — e io le risposi: — Indietro, cara, indietro, e ho paura che non andrò più innanzi! — Mi ricordo che invidiavo mio fratello, perchè impiegato che non aveva che da andare all'uffizio; che invidiavo tanti miei amici i quali non scrivevano che articoletti di giornale; che invidiavo tutti coloro che non avevano sul collo quel giogo di dover star tanti mesi lì a tavolino a stillarsi sulla stessa cosa, quella prigionia dell'immaginazione, quella schiavitù del pensiero, quel supplizio di tutti i giorni e di tutti i momenti. Finalmente giunsi alle ultime pagine. Ebbi un ultimo scoraggiamento, chi lo crederebbe? quando non me ne rimanevan più da scrivere che una quarantina; ma fu breve; dopo di che mi prese un'attività impetuosa, gioiosa, febbrile, che durò fino al momento che scrissi l'ultima parola. Ricordo come se fosse ieri l'ora, il tempo, la luce che inondava la mia stanzina, l'odore di primavera che di tratto in tratto mi portava il vento, e persino l'ordine in cui eran disposti i miei fogli sul tavolino, quando scrissi con mano agitata la parola: — Fine. — Dio buono, era un ben meschino lavoro quello ch'io finivo, appetto alle fatiche ventenni (rido del paragone) del Gibbon, del quale avevo letto pochi giorni innanzi la bellissima prefazione alla Storia della decadenza dell'impero romano! Eppure, in quel momento, sentii anch'io, come lui, l'immensa gioia della libertà riacquistata, e mi parve di affacciarmi a una nuova vita. Mia madre non sapeva nulla; il giorno prima le avevo detto che mi rimaneva un'altra settimana di lavoro; e la mattina medesima le avevo annunziato che appena scritta l'ultima pagina avrei rimesso in ordine i miei libri che da parecchi mesi erano tutti sossopra, e fatto un ripulisti generale sul tavolino, che era un monte di carte e di prove di stampa da non potercisi raccapezzare. L'ordine nella mia stanza sarebbe stato il segnale della fine del mio lavoro. Mi misi dunque in fretta e in furia, ma senza fare rumore, per non mettere sull'avviso mia madre, a ordinare, a pulire, a sgombrare, col tremito in cuore di esser sorpreso, trattenendo ogni momento il respiro per sentire se nessuno s'avvicinava, ridendo da me come un fanciullo e soffocando le risa, finchè tutti i libri furono al posto, tutte le cartacce nella cesta, e sul tavolino non rimase che il calamaio, la penna e gli ultimi fogli del manoscritto. Allora sedetti ed aspettai; il cuore mi batteva forte, mi sentivo il volto acceso, sudavo. Passarono alcuni minuti, nessuno veniva: cominciai a tossire; mi misi a cantarellare. Allora udii nella stanza vicina il passo di mia madre, mi alzai, le corsi incontro. Essa mi guardò e mi domandò con aria di meraviglia: — Che cos'hai? — Io le accennai il tavolino e dissi: — Guarda! — Guardò, non capì subito, stette un momento sopra pensiero, e poi gridò con uno slancio di gioia: — Ma dunque hai finito! — Io le gettai le braccia al collo, ed essa mormorò con voce commossa: Povero figliuolo!
Tutt'a un tratto mi sentii mutare quella gioia vivissima in un sentimento quasi di mestizia. Mia madre se ne accorse e mi domandò: — A che pensi? — O madre mia, risposi, penso che per meritare questa soddisfazione avrei dovuto fare ben altro lavoro! Nondimeno son contento (e qui soggiunsi una frase che soglio dirle quando son contento, e che la fa sempre ridere) e ti ringrazio d'avermi messo al mondo.
Ciò detto, le porsi il braccio, uscimmo dal mio gabinetto, e facemmo la nostra entrata trionfale nella stanza da pranzo dov'era il resto della famiglia.
Vorrei che la donna che mi ama m'avesse visto in quel punto, perchè, lo dico francamente, ero bello.
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