Pagine sparse. Edmondo De Amicis

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Pagine sparse - Edmondo De Amicis

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di afferrar subito un libro per fingere almeno che studiavi, non ti verrebbe detto, come a un ragazzo côlto in fallo, con accento di scusa: — Ma io lavoravo, sapete!

       * * *

      T'amo, o tavolino! Tu, fra tutti gli oggetti della casa, sei il solo che rappresenti l'amicizia fedele. La porta che, nei nostri begli anni, risuona qualche volta al tocco d'un ditino, che ci fa balzare in piedi col cuore in sussulto, finisce col non aprirsi più che a qualche vecchio amico che ci viene a parlare di malanni. Lo specchio, che ci dice tante care cose, fin che abbiamo l'occhio scintillante e la guancia rosea, finisce per diventarci odioso come un importuno che ci rammenti sempre una sventura che vorremmo dimenticare. Il letto sul quale ora dormiamo i sonni pieni e quieti della giovinezza, finisce per diventare un giaciglio di spine sul quale cerchiamo inutilmente il riposo. Tu, tavolino, sei l'ultimo ridotto nel quale, affranti dai disinganni, ripariamo. Caro quando, accesi dall'ispirazione, ti percotiamo col pugno vigoroso, presentendo la gioia dei trionfi; ci sei caro ugualmente quando torniamo a te col cuore contristato da una speranza miseramente delusa. Giovani, t'amiamo per la gloria; vecchi, per la pace; e riedifichiamo su te l'edifizio caduto della giovinezza.

       * * *

      V'hanno dei momenti nella giornata dello studioso, — anche giovane, — nei quali la vita, — non so per che improvviso rivolgimento d'idee — gli si presenta al pensiero soltanto sotto i tristi aspetti; i pericoli, le delusioni, le lotte inutili, la vanità di ogni cosa; — e tutte queste immagini gli paion come altrettante figure umane che, accennando lui, dicano: — Ecco un fortunato! — In quei momenti egli prova qualcosa di simile al sentimento di chi, stando chiuso in una stanza calda, vede cader la neve nella via. Egli si sente bene nel suo covo, è contento della maniera di vita che ha scelta, prova come un bisogno di rannicchiarsi, vorrebbe vivere in un guscio anche più piccino, per tapparvisi meglio, per essere più al sicuro. Gli par di essere nella sua stanza piena di libri come in una fortezza inespugnabile, fornita di provvigioni inesauribili, in mezzo à una vasta pianura corsa da eserciti furiosi che spargano sangue e paura.

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      V'hanno altri momenti, per contro, nei quali par che vi manchi tutt'a un tratto il calore intimo della vita del pensiero. Allora ogni cosa si agghiaccia intorno a voi; lo scopo delle vostre fatiche vi par puerile; vi piglia un'uggia invincibile di tutto ciò che avete dinanzi agli occhi e sotto le mani; i vostri libri ve li sentite come ammontati tutti sul petto; la finestra vi par diventata lo spiraglio di un carcere; il soffitto vi par che s'abbassi sulla vostra testa. Vi manca il respiro, v'alzate, vi guardate allo specchio: avete i capelli aruffati, la barba lunga, gli occhi rossi; vi sentite inselvatichito, avvilito; vi pare d'esservi svegliato in una spelonca; provate quasi orrore di esser così solo, intanato; pensate agli amici, alla campagna, alla musica, alle signore eleganti, e dite a voi medesimo che siete un insensato e un infelice.

       * * *

      Certe figure d'amici vostri che sanno tanto più di voi, dopo che vi siete dato a studiar di proposito, ingigantiscono. Prima vi pareva che i lampi che voi mandate valessero assai più dell'oro che essi possedono, e vi meravigliavate che anch'essi non fossero del vostro parere. Ma a poco a poco siete arrivato a capire come un uomo che ha studiato davvero, che ha fatto di quegli sforzi di volere che costano lotte faticosissime, e riportate di quelle vittorie intime che insuperbiscono al pari d'un trionfo pubblico, debba naturalmente far poco conto dell'ingegno che s'alza per la sola forza delle sue ali; che molto ardisce perchè ignora molto; che non sente la sua vacuità perchè non essendosi mai messo alla grave impresa di riempirla, non l'ha mai misurata. Capite ora come a quell'uomo l'opera d'un tale ingegno debba parere un edifizio fragile. Anche voi, a pari altezza, ammirate di più il vertice immobile d'una piramide che l'ondeggiamento d'un cervo volante. Chi studia, conquista; l'ingegno incolto, al suo paragone, par che rubi. Molti che vi parevano invidiosi perchè non vi battevano le mani, capite ora che non avevano per voi altro sentimento che quello d'una fredda disistima. Essi sono boccie di cristallo, e voi siete bolle di sapone.

       * * *

      Studia; ma non ti rintanare, scriveva il Giusti a suo fratello; e v'è un proverbio spagnuolo che tradotto letteralmente, dice: «corsa che non dà il puledro nel corpo gli rimane.» Guai al giovine che per studiare si seppellisce! La durerà più o men tempo, e poi gli piglieranno delle malinconie disperate. Per non aver creduto a chi mi dava questo consiglio, mi svegliai qualche volta con una così profonda ripugnanza per lo studio e per la casa, che scappai come un frenetico, corsi alla campagna, camminai tutta la giornata, dormii in un villaggio, e non tornai in città che il giorno dopo come torna un forzato alla galera. E non bisogna tuffarsi intero negli studî, anche per non perdere ogni attitudine alla vita sociale. Chi sta troppo solo, non più usato a tollerare i difetti dei suoi simili, a far sacrifizî d'amor proprio, a soffrire degli attriti spiacevoli, quando poi ritorna in mezzo alla gente si sente urtato e punto in mille modi, da mille parti. E va qualche volta tant'oltre questa sensitività penosa, da renderci insopportabile la più leggiera contraddizione. Nello studio solitario l'amor proprio ingigantisce; l'io diventa formidabile. Le nostre fatiche eccessive par che ci diano il diritto, — qualunque sia il frutto che ne ricaviamo, — di tenerci da più degli altri. Assuefatti nel nostro piccolo mondo a regnar da principi assoluti, portiamo anche fuori di esso le pretensioni e le arroganze principesche. Bisogna andar sempre fra la gente per farsi rintuzzare le corna dell'orgoglio.

       * * *

      Una volta stetti tre mesi di seguito chiuso in casa a studiare, dalla mattina alla sera, non uscendo che un po' dopo desinare per pigliare una boccata d'aria. Facevo la colazione alla Franklin, bevevo appena un bicchier di vino al giorno, non fumavo, mi levavo la mattina all'alba. Volli esprimentare fino a che punto di elasticità e di forza si potessero condurre le facoltà mentali, e che miglioramento si operasse nelle morali, rifiutando al corpo tutto quello che infiacchisce le une e corrompe le altre.

       * * *

      I frutti del primo mese e di mezzo il secondo furono ammirabili. Sentivo la verità di quella sentenza del Rousseau: — Un giovane che vivesse in questa maniera fino a venticinque anni, schiaccerebbe poi facilmente tutti gli altri. — La memoria mi s'era fatta più facile e più tenace; capivo a volo cose che prima mi davan da pensare un'ora; idee che pel passato mi si svolgevano nella mente come un filo sgomitolato a fatica, ora scoppiettavano tutte insieme, al menomo tocco, come un nuvolo di scintille; ragionando, sentivo che andavo più addentro; parlando, dovevo fare uno sforzo per contenere la piena delle parole che volevano prorompere. Poi, per quello che riguarda il sentimento, valeva addirittura il doppio. La commozione che mi dava la lettura delle cose poetiche, era più pronta e più durevole. Leggendo ad alta voce certi versi, mi sfuggivan persino delle grida. Mi rendevo ragione di certi esaltamenti, che m'erano parsi fino allora inesplicabili, di artisti, o di uomini nati per essere artisti, che alla lettura di certi libri erano stati presi dalla febbre, avevan dato in voci e in gesti da spiritati. E di tutti gli effetti di quella maniera di vita, quello che mi colpiva di più era questo: che il mio pensiero tendeva sempre a andare in su, a smarrirsi fuori del mondo. Per ore e ore non facevo che fantasticare intorno agli astri, all'immortalità dell'anima, all'infinito. Mi ero chiuso la porta di casa, scappavo pel tetto. Ma, in complesso, il miglioramento era grande.

       * * *

      Il terzo mese fu un mese di lotta, e finì colla mia sconfitta. Mi parve che la mia intelligenza diventasse inerte e la mia memoria s'intorbidasse. Rimaneva la commovibilità, ma era giunta al segno da potersi chiamare piuttosto irritazione morbosa che vigore sano di sentimento. Ero diventato stravagante. A volte, smettevo di leggere, per far dei giuochi di forza colle seggiole,

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