Il Colpo. Kate Rudolph

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Il Colpo - Kate Rudolph

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aver corso ancora per un po’, fu inghiottita dal silenzio. Il bosco era sempre lo stesso, ma tutti i suoni erano svaniti. Mel guardò alle sue spalle e vide nell’aria un debole luccichio. Sollevò una mano lentamente e la spinse avanti. L’aria faceva resistenza.

      Una zona protetta.

      Avrebbe potuto spingere fino a oltrepassarla; quella barriera non era destinata a tenerla prigioniera. Ma la curiosità ebbe la meglio. “Mostrati, strega.” Mel lasciò che la sua voce suonasse minacciosa, anche se non era propriamente un ringhio.

      Una donna uscì dall’ombra. “È davvero in questo modo che intendi rivolgerti a me, Mellie?” Sembrava sulla quarantina, anche se Mel non aveva mai saputo esattamente quanti anni avesse. Chiunque possedesse la magia poteva lanciare un incantesimo e apparire di qualsiasi età. L’aspetto non aveva alcuna rilevanza quando una persona poteva avere trenta o trecento anni. La donna indossava pantaloni neri e un top grigio scuro, in perfetta armonia con la notte fonda. Come unici gioielli portava un paio di semplici orecchini di diamanti messi in ombra dai capelli scuri che le ricadevano oltre le spalle.

      Ed ecco che alcune cose trovavano una spiegazione. “Ciao, Tina. Sei stata tu a far scattare l’allarme?” Mel era sorpresa dal suo stesso disappunto, visto che da tempo era abituata alle buffonate di Tina.

      Tina rise, una risata a squarciagola che avrebbe riecheggiato attraverso l’intero bosco se non fosse stato per la barriera. “Forse stai solo diventando più distratta.”

      Mel trovò le parole giuste per risponderle per le rime. “Se sono distratta, perché mi stai offrendo un lavoro?”

      Tina si portò una mano al petto con la bocca aperta in un’espressione stupita – era il ritratto dell’innocenza. “Così mi ferisci, mia cara. Forse volevo solo parlare.”

      “In mezzo a un bosco con delle guardie che mi danno la caccia?” Mel si appoggiò con la schiena a una solida quercia e decise di assecondare la donna. “Va bene. Parliamo.”

      Tina scosse i capelli sistemandoli dietro le spalle e si piazzò le mani sui fianchi. “Lo Smeraldo Scarlatto.”

      Se Mel avesse avuto in mano qualcosa, le sarebbe caduto. Lì per lì riuscì a stento a mantenere un’espressione neutra. “Cosa ti fa pensare che non mi senta insultata da questa proposta?” Lo Smeraldo Scarlatto era leggendario tra i mutaforma.

      “Ma dai, faresti qualsiasi cosa se ritenessi adeguato il compenso,” le disse Tina in tono sprezzante.

      Quella piccola osservazione fece venire a Mel la voglia di rifiutare senza appello l’intera faccenda. Chi diavolo credeva di essere Tina? Una ladruncola da quattro soldi nemmeno tagliata per fare la strega. Non una potente, comunque. Ma Mel non era pronta a bruciarsi quel ponte alle spalle. Non in quel momento. “Ci sono forse – forse – tre persone che potrebbero farcela. Le sole che mi vengono in mente così, su due piedi.” Le contò sulle dita. “Cyn si è fatta beccare dai vampiri due anni fa, è fuori dai giochi. La Regina di Ghiaccio non ci proverebbe nemmeno. Rimango io. E una volta scoperta, sulla mia testa ci sarà una taglia abbastanza grossa da poter comprare il Kansas. Non mi interessa.”

      “Hai paura di quel micetto?” La voce della donna più vecchia lasciava trasparire un profondo disprezzo. “Torres, nonostante il suo castello, non potrebbe tenerti lontano neanche se ci provasse.”

      Lucio Torres, alfa di un piccolo clan di felini, era l’attuale proprietario dello Smeraldo Scarlatto. Lo sapevano tutti. Senza ricerche, in quel momento Mel non aveva molte altre informazioni. Ovviamente lui era pronto a combattere contro qualsiasi attacco, e i suoi sistemi di sicurezza dovevano di certo essere di prim’ordine. Ma lei poteva farcela.

      Nonostante ciò, avrebbe rifiutato. Quell’obiettivo portava con sé una condanna a morte.

      “Non vuoi nemmeno sapere a quanto ammonta il compenso?” Tina inarcò un sopracciglio. Con un rapidissimo movimento delle mani fece apparire un diamante puro montato su un ciondolo di platino, e glielo fece penzolare davanti. “Per il disturbo.”

      Inconsciamente Mel allungò una mano per prenderlo, con il cuore che le martellava nel petto. Ma Tina glielo sottrasse. “È di Ava?” chiese Mel. L’odio le ribolliva in gola e sentiva gli artigli spingere sotto la pelle, pronti a erompere al momento giusto.

      Tina sorrise. “Sì. È una pietra rivelatrice.”

      Accettare il lavoro sarebbe stato un suicidio. Si sarebbe fatta ammazzare e probabilmente avrebbe fatto fare la stessa fine anche alla sua squadra. “Quanto tempo ho?” Stava solo valutando la situazione, nessun impegno.

      “Tre settimane.”

      Doppio suicidio. Non avrebbe avuto il tempo di prepararsi prima di tentare il colpo. “Lasciami guardare il gioiello un minuto.”

      Tina glielo lanciò, e Mel lo prese facilmente al volo. Era un diamante lungo e sottile, montato su un filo di platino che si attorcigliava nella parte superiore. Aveva una catenina abbastanza lunga perché una donna potesse portare il gioiello tra i seni, e la gemma era quasi trasparente. Mel lo tenne stretto in una mano. Poteva immaginare Ava mentre lo indossava, con una goccia di sangue che ne macchiava un’estremità.

      Il diamante oppose alla sua mano una certa resistenza. Mel lo lasciò andare e lo guardò tornare in un attimo nelle mani di Tina. “Salutami Krista,” disse la donna, poi sorrise e se ne andò, senza aspettare che Mel confermasse di aver accettato il lavoro.

      Entrambe avevano avuto la certezza che l’avrebbe fatto, dal primo attimo in cui Mel aveva toccato il diamante.

      C’erano modi peggiori di morire.

      2

      Capitolo Due

      Una settimana più tardi

      A Eagle Creek, in Colorado, c’erano due squallidi motel e un ristorante in cui Mel mangiava sentendosi abbastanza sicura. Non era la clientela a preoccuparla – era il cibo. Era nota per divorare le sue prede ancora sanguinanti quando assumeva la sua forma felina. Ma come donna, con fattezze umane, doveva rispettare degli standard. Krista e Bob erano già seduti a un tavolo. Era quello nell’angolo più lontano, sul lato opposto del locale rispetto al bancone e al bagno.

      L’Eagle Creek Bar e Grille – la E finale, naturalmente, dava un tocco di classe – era una piccola attività. Forse venti tavoli e un solido bancone con una dozzina di sgabelli. Poteva soddisfare agevolmente le esigenze degli abitanti della cittadina, ma i campeggiatori che passavano di lì durante il loro viaggio verso le montagne probabilmente non ne coglievano il fascino. Nemmeno Mel lo coglieva, ma era sempre meglio che nutrirsi di ramen riscaldato nel microonde della stazione di servizio.

      Alle sette del martedì sera il locale era affollato. Tutti i tavoli, tranne uno, erano occupati e le cameriere si davano tutte un gran daffare a servire da bere e a distribuire cibo come se l’apocalisse fosse vicina. Dal botta e risposta con i clienti, si capiva che tutte loro lavoravano lì da un po’ di tempo e che molti degli avventori erano clienti abituali. In una città di quelle dimensioni, era normale che fosse così.

      L’uomo burbero dietro il bancone era un mutaforma, probabilmente un felino. E se Mel avesse dovuto tirare a indovinare, avrebbe detto che lo erano anche i quattro componenti della famiglia sistemata al tavolo più vicino alla finestra. Ma entrambi

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