Il Castello Della Bestia. Aurora Russell
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Veronica considerò ciò che aveva detto. Le sue scuse sembravano oneste e lui pareva contrito. Sicura che lui non fosse un uomo abituato ad avere torto, apprezzò il fatto che l’avesse ammesso subito. Ora che il momento di tensione era passato, notò quanto fossero vicini l’uno all’altra. Soli. Sembrava stranamente intimo, e anche lui doveva averlo percepito, dato che fece un goffo passo indietro.
«Scuse accettate» gli rispose alla fine. «Spero che non la prenda nel modo sbagliato, ma davvero non so chi siate, lei e Jean-Philippe, se non amici di famiglia di Madame Montreaux, o almeno questa è stata la vaga impressione che ho avuto da lei. Non riesco però a immaginare cosa si provi a passare attraverso qualcosa di così... difficile, e poi di dover affrontare il fatto che venga pubblicizzato, per giunta.»
Lui fece una smorfia. «Penso che sia un buon promemoria che forse non sono così famoso come penso di essere.»
Veronica sorrise al suo tono autoironico. «Beh, non se la prenda. Di solito non ho tempo per leggere People, e tanto meno Paris Match» disse, nominando una delle riviste più famose in Francia. «Una volta ho incontrato un attore di Hollywood in un bar, e gli ho chiesto se fossimo andati al college insieme.»
La sua risata di risposta fu tanto improvvisa quanto sorprendente, e suonò un po’ stentata, come se non ridesse molto spesso.
«Cosa ha risposto?»
Lei si morse il labbro. «Ha solo detto di no» rise al ricordo. «Non saprei dire chi fosse nemmeno ora, se non per il fatto che un paio di persone si sono avvicinate a lui per chiedergli un autografo subito dopo. Ero mortificata.»
Lui allungò la mano per restituirle il telefono, premendo il pulsante per tornare alla schermata iniziale, ma si fermò quando guardò l’immagine dello screensaver, che era apparsa. Il respiro si bloccò nella gola di Veronica. Era una sua foto sulla spiaggia, affiancata da due giovani uomini alti e belli. C’era stata una brezza quel giorno, quindi i loro capelli erano tutti scompigliati dal vento, e il sorriso sui loro volti era sereno e del tutto spensierato. Era stato quello che lei considerava "L’Ultimo Splendido Giorno".
Sperò che lui non le chiedesse nulla, e qualcosa doveva averle brillato negli occhi, visto che lui le restituì il telefono senza fare commenti.
«Ci vediamo a cena?» le chiese.
«Senz’altro. A più tardi. In realtà, è meglio che vada a prepararmi» rispose, voltandosi verso la casa.
«Naturalmente.» Aveva parlato con un tono annoiato, e lei lo riconobbe per il congedo che voleva essere. A quanto pareva, Monsieur Reynard era una somma di contraddizioni, ma ormai aveva scorto l’uomo, nascosto dietro il personaggio affascinante e remoto. In precedenza lo aveva trovato attraente, misterioso, ma in quel momento... in quel momento si rese conto che poteva essere pericoloso. Oh, non pensava che avrebbe fatto del male a qualcuno, anche se non le sarebbe certo piaciuto trovarsi dalla parte del destinatario della sua ira. No, era una minaccia per la sua stessa pace mentale. Era sconcertante, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a smettere di pensare a lui e alla sua risata involontaria, al calore del suo corpo vicino al suo. E sarebbe andata a vivere a casa sua.
Avrebbe dovuto stare attenta.
Capitolo Quattro
Alain stava aspettando nel salottino suo figlio e Mademoiselle... no, Veronica, lui l’avrebbe chiamata Veronica. L’informalità le si addiceva. Nell’attesa, si versò un bicchierino di Pastis dal vassoio che si trovava sopra l’armadietto dei liquori. Hormet, che lo conosceva bene, aveva lasciato anche una piccola brocca di acqua ghiacciata da aggiungere al Pastis fino a renderlo della perfetta tonalità giallo chiaro opaco. L’odore di liquirizia del liquore, gli ricordava sempre la famiglia di suo padre che proveniva dal sud della Francia. La Provenza. Affettuosi, genuini e gentili, avevano amato i loro figli e nipoti. E suo nonno aveva sempre offerto loro quella delizia al gusto di anice.
Era rimasto spiazzato per aver commesso un tale errore con Veronica, quel giorno, a proposito delle foto sul suo telefono. Non era da lui sbagliarsi così tanto sulle intenzioni di qualcuno, ma poi, si ricordò, si era sbagliato anche un altro paio di volte, nel recente passato. Clamorosamente sbagliato. In effetti, per qualcuno che aveva costruito la sua intera attività, la sua intera fortuna, sull’essere un così accorto giudice del carattere altrui, ultimamente sembrava non esserne più capace.
La sua risata fu priva di senso dell’umorismo. Anche nei suoi stessi pensieri, stava minimizzando l’enormità di ciò che era andato storto. Suppose di non volerlo affrontare, nemmeno nella sua mente. Perché in quel caso avrebbe dovuto essere onesto con se stesso, e non era sicuro di sentirsi pronto per quello. Non ancora, comunque.
Fu salvato dalla cupa svolta che stavano prendendo i suoi pensieri dalle allegre chiacchiere di suo figlio, mentre il bambino irrompeva nella stanza.
«Papa! Veronica mi ha portato delle creature marine. Moltissime. Ci sono una pastinaca e una manta e un calamaro gigante e un’orca! Guarda!» Tese una specie di giocattolo di plastica il più in alto possibile arrivando quasi al petto di suo padre, visto quanto era alto Alain, ma Jean-Philippe si mantenne coraggiosamente dritto sulla punta dei piedi.
«Sorprendente!» rispose Alain, studiando la figura di plastica come se fosse un’opera d’arte in un museo. «Sembra proprio l’orca che abbiamo visto durante il whale-watch l’estate scorsa in Alaska, non credi?»
Jean-Philippe annuì eccitato mentre Veronica lo seguiva nella stanza, con la gonna del suo semplice vestito nuovo che scivolava frusciando contro lo stipite della porta.
«Adoro le orche. Sono predatori. Orche assassine. Lupi di mare. A volte mangiano gli squali. Questo è figo! Papà e io abbiamo visto un intero branco l’estate scorsa, vero? Penso che questa assomigli alla mamma orca... o forse al bambino. Le orche sono davvero grandi. Ma le balene blu sono più grandi.»
Alain tentò di trattenersi, ma non poté fare a meno di osservare la reazione di lei al monologo eccitato di suo figlio. Lui ci era abituato, ma a un estraneo poteva risultare scioccante. O, come era stato per la madre di Jean-Philippe, noioso.
I loro occhi si incontrarono al di sopra della testa bionda di Jean-Philippe, e i loro sguardi si incrociarono. Gli occhi di lei erano grigi, chissà perché non aveva notato prima quel colore insolito, e profondamente divertiti, non in modo condiscendente, però. Lo capì immediatamente. No, a Veronica piaceva suo figlio. Ascoltava il bambino, lo ascoltava davvero, nonostante il rapido flusso di parole con cui Jean-Philippe si esprimeva spesso. Lo sguardo che lei rivolse ad Alain lo riscaldò e lo fece anche sentire colpevole. Quel calore era dovuto alla connessione che condividevano in quel momento, al divertimento e all’apprezzamento che provavano per l’entusiasmo genuino di Jean-Philippe.
Il senso di colpa colpì Alain con altrettanta forza, poiché sua moglie Joëlle non aveva mai sentito quel tipo di legame. In effetti non le era mai importato, anche quando ne aveva avuto l’occasione. Per lei, avere Jean-Philippe era stato profondamente fastidioso, e anche se si era divertita ad agghindarlo, non lo aveva mai considerato come una persona a pieno titolo. Se fosse stata lì, al posto della nuova ragazza alla pari, non sarebbe riuscita a scappare abbastanza in fretta dalla stanza. Ma lui si sentiva comunque colpevole.
Si schiarì la gola per nascondere il suo disagio. «Vuole qualcosa da