La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке. Данте Алигьери

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La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке - Данте Алигьери Lettura classica

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scheggia,

      da quelle cerchie etterne ci partimmo.

      73 Quando noi fummo là dov’ el vaneggia

      di sotto per dar passo a li sferzati,

      lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

      76 lo viso in te di quest’ altri mal nati,

      ai quali ancor non vedesti la faccia

      però che son con noi insieme andati».

      79 Del vecchio ponte guardavam la traccia

      che venìa verso noi da l’altra banda,

      e che la ferza similmente scaccia.

      82 E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,

      mi disse: «Guarda quel grande che vene,

      e per dolor non par lagrime spanda:

      85 quanto aspetto reale ancor ritene!

      Quelli è Iasón, che per cuore e per senno

      li Colchi del monton privati féne.

      88 Ello passò per l’isola di Lenno

      poi che l’ardite femmine spietate

      tutti li maschi loro a morte dienno.

      91 Ivi con segni e con parole ornate

      Isifile ingannò, la giovinetta

      che prima avea tutte l’altre ingannate.

      94 Lasciolla quivi, gravida, soletta;

      tal colpa a tal martiro lui condanna;

      e anche di Medea si fa vendetta.

      97 Con lui sen va chi da tal parte inganna;

      e questo basti de la prima valle

      sapere e di color che ’n sé assanna».

      100 Già eravam là ’ve lo stretto calle

      con l’argine secondo s’incrocicchia,

      e fa di quello ad un altr’ arco spalle.

      103 Quindi sentimmo gente che si nicchia

      ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,

      e sé medesma con le palme picchia.

      106 Le ripe eran grommate d’una muffa,

      per l’alito di giù che vi s’appasta,

      che con li occhi e col naso facea zuffa.

      109 Lo fondo è cupo sì, che non ci basta

      loco a veder sanza montare al dosso

      de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

      112 Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso

      vidi gente attuffata in uno sterco

      che da li uman privadi parea mosso.

      115 E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,

      vidi un col capo sì di merda lordo,

      che non parea s’era laico o cherco.

      118 Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo

      di riguardar più me che li altri brutti?».

      E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

      121 già t’ho veduto coi capelli asciutti,

      e se’ Alessio Interminei da Lucca:

      però t’adocchio più che li altri tutti».

      124 Ed elli allor, battendosi la zucca:

      «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe

      ond’ io non ebbi mai la lingua stucca».

      127 Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

      mi disse, «il viso un poco più avante,

      sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

      130 di quella sozza e scapigliata fante

      che là si graffia con l’unghie merdose,

      e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

      133 Taide è, la puttana che rispuose

      al drudo suo quando disse «Ho io grazie

      grandi apo te?»: «Anzi maravigliose!».

      136 E quinci sian le nostre viste sazie».

      Canto XIX

      O Simon mago, o miseri seguaci

      che le cose di Dio, che di bontate

      deon essere spose, e voi rapaci

      4 per oro e per argento avolterate,

      or convien che per voi suoni la tromba,

      però che ne la terza bolgia state.

      7 Già eravamo, a la seguente tomba,

      montati de lo scoglio in quella parte

      ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.

      10 O somma sapienza, quanta è l’arte

      che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,

      e quanto giusto tua virtù comparte!

      13 Io vidi per le coste e per lo fondo

      piena la pietra livida di fóri,

      d’un largo tutti e ciascun era tondo.

      16 Non mi parean men ampi né maggiori

      che que’ che son nel mio bel San Giovanni,

      fatti per loco d’i battezzatori;

      19 l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,

      rupp’ io per un che dentro v’annegava:

      e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.

      22 Fuor de la bocca a ciascun soperchiava

      d’un peccator li piedi e de le gambe

      infino al grosso, e l’altro dentro stava.

      25 Le piante erano a tutti accese intrambe;

      per che sì forte guizzavan le giunte,

      che spezzate averien ritorte e strambe.

      28 Qual suole il fiammeggiar de le cose unte

      muoversi pur su per la strema buccia,

      tal era lì dai calcagni a le punte.

      31 «Chi è colui, maestro, che si cruccia

      guizzando più che li altri suoi consorti»,

      diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».

      34 Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti

      là giù per quella ripa che più giace,

      da lui saprai di sé e de’ suoi torti».

      37 E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:

      tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto

      dal tuo volere, e sai quel che si tace».

      40 Allor venimmo in su l’argine quarto;

      volgemmo e discendemmo a mano stanca

      là giù nel fondo foracchiato e arto.

      43 Lo buon maestro ancor de la sua anca

      non mi dipuose, sì mi giunse al rotto

      di quel che si piangeva con la zanca.

      46 «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,

      anima trista come pal commessa»,

      comincia’

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