Samos. Xisco Bonilla

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Samos - Xisco Bonilla

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sarà meglio che vi ritiriate per riposare.»

      «Faremo così, capitano.» rispose Telma alzandosi.

      «Ancora una cosa, preferisco che non passiate per il ponte, lo dico per l'equipaggio, sono brave persone, ma è meglio prevenire.» Zamar spogliava la giovane donna con gli occhi mentre parlava. La ragazza aveva sicuramente molto più valore dei suoi fratelli nei mercati di Tiro. Il pirata sorrise tre sé mentre li congedava.

      La notte trascorse senza ulteriori incidenti. Janira si addormentò velocemente. Telma e Nerisa erano preoccupate perché la bambina non parlava affatto, in due giorni praticamente non aveva detto nulla, né pianto né giocato. Era come se si fosse chiusa in sé stessa, isolandosi da tutto ciò che la circondava. Almice si sentiva responsabile della situazione di tutti loro, specialmente Janira; dopo tutto, era la più indifesa.

      La mattina salirono per un po' sul ponte per fare colazione con il capitano; era una buona scusa per respirare l'aria fresca. Gli sguardi lascivi che alcuni uomini lanciarono a Telma li fecero tornare presto sottocoperta. Avevano molto tempo per pensare. Almice scoprì che stavano andando ad est, era chiaro che avevano deviato; sebbene il capitano non avesse detto che fossero così lontani da Kos, non capiva come fossero riusciti ad allontanarsi così tanto dalla loro rotta originale. Consumarono pranzo e cena sottocoperta, preferirono non uscire sul ponte. Il capitano scese più volte a trovarli affinché si sentissero più sicuri, anticipandogli che probabilmente sarebbero arrivati a Kos alla fine del giorno successivo.

      Doveva essere già oltre mezzanotte quando delle mani ruvide afferrarono Telma tappandole la bocca. Cercò di lottare, ma diversi uomini la tenevano e la portarono fuori dalla stanzetta senza che i suoi fratelli si accorgessero di nulla. Cercò di liberarsi per chiedere aiuto, come l'altra volta, spaventata, temendo il peggio, ma le mani dei suoi rapitori si strinsero come catene sui suoi mani e piedi. La portarono alla base dell'albero maestro, sottocoperta. Questi uomini parlavano a bassa voce mentre gli occhi spaventati di Telma cercavano di trovare una via d'uscita inesistente da quella assurdità. Pur sentendosi impotente, cercò disperatamente di divincolarsi dai suoi stupratori. Un duro colpo alla testa fece cessare la sua lotta.

      Uno dei marinai le strappò la tela che le copriva il busto. I suoi seni emersero tremuli alla luce dei luminari, riflettendo il sudore causato dalla lotta. Un altro membro dell'equipaggio, senza fare rumore, le sollevò il resto degli abiti fino alla vita e diede libero sfogo ai suoi più bassi istinti. Telma tornò in sé urlando per il terrore. Era pienamente consapevole di ciò che stava accadendo, le sue peggiori paure stavano diventando realtà e doveva fuggire in ogni modo. Gli stupratori avevano abbassato la guardia e Telma aveva le mani libere così cercò di liberarsi del corpulento marinaio che la stava possedendo. In quel momento, Almice si svegliò di soprassalto per il rumore, si guardò intorno e vide sua sorella in mezzo alla stiva sotto il corpo del marinaio. Corse fuori pieno di rabbia verso l'aggressore, brandì un coltellino che teneva nascosto nei vestiti e dal quale non si separava mai, mentre Telma continuava a strillare e lottare, affondando le unghie con tutta la sua forza negli occhi del bastardo che le stava sopra. Gli altri marinai tentavano di allontanare le mani di Telma dagli occhi del loro compagno.

      «Lasciala, figlio di puttana!» Almice si avventò su uno degli uomini che gli sbarrava il passo conficcandogli la piccola lama nella spalla. La vittima gli sferrò una ginocchiata allo stomaco, lasciandolo steso a terra senza aria.

      «Lasciami, cagna!» Il marinaio che stava violentando Telma si mise a sedere pieno di dolore, con un occhio lacerato e fuori dall’orbita. Afferrò la ragazza per il collo con tutte le sue forze e le sbatté la testa più volte contro la base dell'albero maestro con insolita violenza mentre urlava. Fu l'ultima cosa che fece.

      «Che cazzo state facendo, idioti!» Zamar aveva appena infilzato il marinaio da dietro con la sua spada. «Vi avevo detto di stare lontano da loro. Stupidi!» Un altro marinaio lo affrontò con una spessa barra di legno.

      «Chi ti credi di essere per darci ordini?» Era un essere enorme, che restava piegato per evitare con la testa il tetto della stiva, Almice, ancora a terra, osservava la scena senza osare alzarsi, non aveva mai visto un uomo così grande. Si avventò sbuffando su Zamar, che fece un rapido movimento con la mano sinistra e un paio di coltelli rimasero si conficcarono nel torace di quella torre, che crollò come una massa inerte vicino alle pietre che fungevano da contrappeso della nave. Il terzo uomo, quello che aveva ferito Almice, lasciò cadere il bastone che brandiva, implorando clemenza. La lama della spada di Zamar fu infilzata nella carne umana una seconda volta quella notte.

      Nerisa e Janira si erano svegliate, spaventate dal clamore della rissa e osservavano la scena con orrore senza il coraggio di lasciare la propria cabina o addirittura muoversi. Rimasero immobili come statue. Gli altri membri dell’equipaggio si avvicinarono, in attesa. Almice si alzò a sedere e si mosse lentamente verso la sorella maggiore. Telma era inerte, la testa deformata da colpi, i capelli arruffati e alcuni rivoli di sangue le scendevano sul collo. I suoi occhi senza vita e inzuppati di lacrime erano rivolti al ponte. Le abbassò i vestiti per coprirle il sesso e le coprì il seno.

      «Come sta tua sorella?» si interessò Zamar, avvicinandosi a lui.

      «Ci hai detto che eravamo al sicuro con te!» Il ragazzo lo rimproverò, la sua voce era un amalgama di rabbia e disprezzo. «Mia sorella è morta, i tuoi uomini l'hanno uccisa. Questo è il tuo maledetto aiuto?» Girò la faccia verso Zamar con uno sguardo gelido, che per un istante alterò la fredda compostezza del capitano.

      «Non volevo che ciò accadesse, mi dispiace per tua sorella. Ho perso molti soldi a causa di questi idioti, ma ora non mi daranno più fastidio.» Inguainò la spada nel fodero.

      «Dei soldi? Cosa volevi fare con noi, miserabile?» Zamar gli ruppe un labbro con un pugno. Almice sopportò il dolore mentre il sangue gli affiorava dall'interno del labbro filtrando attraverso la gola e lasciandogli un sapore amaro.

      «Disgraziati! Venderò te e le tue sorelle a Tiro, arriveremo in città tra una settimana.» rise sonoramente. «Pensavate che con alcune monete avreste potuto pagare il passaggio? È un peccato che tua sorella sia morta, mi avrebbero dato molto denaro per lei. Almeno ho voi e il corpo della tua amata sorella potrà soddisfare il resto dell'equipaggio mentre è ancora caldo, finalmente servirà a qualcosa di più che lamentarsi.» Almice lo colpì, accecato dalla rabbia. Ma un colpo secco alla schiena lo lasciò di nuovo privo di sensi.

      Dopo un po'. Almice si svegliò chiuso nel piccolo recinto accanto alle sue sorelline, che stavano piangendo. Dall'altra parte del parapetto di legno che fungeva da muro, si udivano dei rumori. Tentò di aprire la porta spingendola ma era bloccata dall'esterno, erano chiusi dentro. Allora Almice guardò attraverso le fessure delle assi rosicchiate. Ciò che vide lo lasciò abbattuto. Alcuni uomini di Zamar facevano la fila per abusare del corpo senza vita di sua sorella. Non rispettavano nemmeno i morti. Cominciò a gridare, imprecare e supplicare, ma sembrava che le sue urla non potessero andare oltre la piccola cella. Gli dèi dovevano essere occupati in altri compiti più importanti per non voler intervenire in quel macabro evento. Continuò un tempo infinito a minacciare e implorare fino a quando non cedette alle emozioni e cominciò a piangere con le sorelle, distogliendo gli occhi dalle fessure della cella. Che cosa avevano fatto agli dèi perché tutte le disgrazie del mondo si abbattessero su di loro una dopo l'altra? Quali speranze gli restavano in questa vita? Quale sarebbe stato il futuro sinistro che inevitabilmente si stendeva sopra di loro? Non c'era più nulla al mondo che contava. Forse nemmeno i loro dèi erano veri, potevano anche non esistere. Almice voleva morire, magari fossero tutti riuniti insieme ai loro genitori.

      «Su, figlioli» la voce di un marinaio li chiamava con dei colpi alla porta della stanzetta. Nerisa fu la prima ad aprire gli occhi, doveva essere già mezzogiorno. La piccola apertura che illuminava la loro cella nella prua della nave lasciava passare una luce diafana. I suoi occhi erano irritati dal

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