Una vita. Italo Svevo
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– Perché? – chiese Alfonso corrugando le sopracciglia. Non rideva lui; era sorpreso poco aggradevolmente.
– Vogliamo stare insieme e ridere e non studiare, – rispose Lucia coraggiosamente.
– Non sarebbe meglio cessare del tutto queste lezioni che non troppo sembrano piacerle?
Lucia impallidì subito spaventata. La madre le venne in aiuto e spiegò ad Alfonso che la fanciulla non avendo trovato il tempo necessario per studiare, non prendeva quella sera lezione proprio allo scopo di non dover procedere oltre prima di essersi resa padrona di quanto già avevano passato insieme. Poi anch’egli si divertì quella sera più che se fosse rimasto a studiare con Lucia. Ciarlò molto e venne ascoltato religiosamente.
La lezione seguente fu più brutale del solito e giunse fino a darle dell’ignorante. Aveva lasciato alla giovinetta mezz’ora di tempo per dare una risposta che non voleva venire e faceva come se gli sembrasse un delitto che in tale intervallo ella non sapesse raccapezzarsi; dimenticava che donde non c’era non si poteva levar sangue. Egli dichiarò, non trovando altre frasi pungenti, ch’era ora di sospendere quelle lezioni che non portavano alcun risultato e si alzò in piedi per sospendere intanto quella. La ragazza fino ad allora non s’era arrischiata di dichiarare nettamente che quello che non sapeva non poteva dire. Guardava il soffitto a cercarvi la risposta, emetteva dei suoni d’impazienza per diminuire quella d’Alfonso e aveva un sorriso affettato ma forzato tanto che chiedeva compassione. Alla dichiarazione esplicita di Alfonso, ella scoppiò in pianto dirotto, si alzò, uscì chiudendo con violenza la porta e si gettò fra le braccia della madre ch’era sola in tinello. Alfonso fu spaventato dell’effetto che aveva prodotto e volentieri l’avrebbe fermata per chiederle scusa.
La seguì e venne colpito da uno sguardo d’ira intensa lanciato verso la sua stanza dalla signora Lanucci che teneva stretta al seno la fanciulla tanto oppressa dai singhiozzi che ancora nulla aveva potuto spiegarle. Vedendolo, ella lo guardò molto seria:
– Che cosa le ha fatto questa poveretta?
Molto imbarazzato, Alfonso rispose:
– L’ho sgridata perché non aveva studiato nulla!
– Ma se ha studiato! L’ho vista io a studiare.
Come in tutte le persone deboli, l’ira di Lucia perché lungamente repressa, scoppiò con grande violenza. Ad onta dei singhiozzi inviò ad Alfonso con voce intelligibilissima tre insolenze:
– Imbecille, sciocco, asino!
Le belle maniere apprese con fatica negli ultimi anni non l’accompagnavano nella commozione e ne veniva ridotta alle parole, al suono di voce ed al gesto di Gustavo. Alfonso era offeso ma senza parole e irresoluto se dovesse difendersi o salvarsi da quell’ira rifugiandosi nella sua stanza.
La signora Lanucci, dolente di vedere rotta la buona armonia ch’ella aveva voluto regnasse fra i due giovani, si adirò con Lucia:
– Sei tu la sciocca, l’imbecille; vuoi star zitta? – e la respinse da sé.
Lucia andò a cadere su una sedia, ma non le pareva d’essersi sfogata abbastanza:
– Crede di essere un dotto…
– Vuoi stare zitta? – la interruppe la Lanucci minacciosamente.
Ancora per una mezz’ora Lucia continuò a singhiozzare.
La signora Lanucci non voleva apparire di dare importanza all’avvenuto e ne rise con Alfonso che davvero non seppe imitarla.
– Però voglio che in casa regni l’armonia e capisco che l’unico mezzo d’averla è di lasciare queste lezioni; peccato!
Poteva parlare del suo dispiacere senza dover temere di destare sospetti in Alfonso, perché al cominciare delle lezioni gli aveva spiegato quanto dalla sua istruzione sperasse per Lucia. Gli uomini, specialmente coloro i quali hanno il vero entusiasmo per lo studio, diceva la signora Lanucci con un inchino lusinghiero ad Alfonso, sono più idonei ad insegnare che non le donne le quali amano le cose piccole e si perdono in particolari inutili e perciò dannosi alla comprensione del tutto. Gli uomini però, ora se ne accorgeva, avevano altri difetti ed altrettanto dannosi. Ad onta di questi difetti ella rimase tanto gentile con Alfonso da sorprenderlo.
Lucia invece meno. Per otto giorni si astenne dal rivolgergli la parola. Lo serviva a tavola come la madre le ordinava, ma senza pronunziare una parola. La signora Lanucci, per consolarlo, gli faceva l’occhietto, rideva e rivolta a Lucia diceva ironicamente:
– Ma porgi dunque quel piatto al signor Alfonso. Lo odii tanto da volerlo lasciare morire di fame?
Lucia obbediva seria seria; altrettanto serio, con un ringraziamento freddo, Alfonso si lasciava servire.
Una sera, entrando nel tinello improvvisamente perché accompagnato da Gustavo che aveva le chiavi di casa, trovò il vecchio Lanucci e la moglie accigliati e Lucia con gli occhi rossi di pianto. Evidentemente i due vecchi s’erano uniti per farle la predica. Sedette a tavola facendo le viste di non essersi accorto di nulla.
Era pentito amaramente del suo contegno, ma non sapeva chieder scuse. Alla sera quand’era solo o in ufficio, ripensandoci, rivedeva le mute domande di scusa rivoltegli dalla povera fanciulla e doveva confessare che le sue ire erano state scioccamente brutali. Concludeva ch’era suo dovere di andare incontro a Lucia, chiederle scusa, e toglierle un dispiacere che, si capiva, la rendeva infelice. Invece quando si vedeva dinanzi quel volto sciocco, senza espressione, dagli zigomi sporgenti, serio, immusonito con tutta risolutezza, la buona parola che già aveva pronta gli ritornava in gola.
Senza guardarlo in faccia, dopo una lunga esitazione, Lucia andò a lui e stendendogli la mano gli disse:
– Mi scusi, signor Alfonso, ho avuto torto; facciamo la pace!
Alfonso, commosso, gliela strinse con vivacità:
– In gran parte il torto fu mio, mi scusi lei!
Lucia gli lanciò un’occhiata raggiante di riconoscenza che la rese meno brutta ed ebbe poscia il contegno tranquillo, disinvolto, da persona che dimentica i malintesi. Rideva spesso ed era ritornata immediatamente ai suoi costumi affettati e dolci.
Egli fu meno disinvolto; gli dispiaceva di essere stato vinto in generosità. Avrebbe dovuto cedere per il primo lui, la persona colta, il maestro. Questo dispiacere, per quanto lieve, continuò ad agitarlo anche quando fu coricato. Erano sempre questi fatti insignificanti che lo inquietavano nella sua vita del resto vuota d’avvenimenti d’importanza, e ogni sera aveva di che sognare su qualche sua parola detta troppo in fretta o su qualche parola altrui di cui appena allora scopriva il vero significato, per pentirsi di non essersi vendicato di una puntura o di aver risposto troppo brusco ingiustificatamente.
In tinello si parlava e, macchinalmente, egli ascoltò. Erano la Lanucci ed il marito; egli non distingueva che il suono delle voci e soltanto quando, per recarsi alla loro stanza, passarono dinanzi alla sua porta, udì chiaramente la Lanucci che esclamava, probabilmente a conclusione di quanto fino ad allora avevano discorso, con un risolino di buon umore: – Queste sono proprio dispute da innamorati.
Di sospetti ne aveva già