Eva. Giovanni Verga
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Egli si tacque per esaminare trionfante l’effetto della sua eloquenza da pessimista.
«Che cosa mi rispondi?» domandò sorpreso del mio silenzio.
«Che hai veramente il cuore ammalato.»
«Sarà anche vero. Già te l’ho detto che è quistione d’ottica, ed io non pretendo all’infallibilità.»
«E ti credo molto sventurato.»
«Sì! Sì!» accennò col capo, e sembrava commosso; indi soggiunse: «È pure una gran sventura quella di perdere certe illusioni… certe follie… care follie che riempivano di rosei sogni la mia cameretta al terzo piano!…E poi, che resta quando esse son svanite?…»
«Tu lo vedi!»
«Sì! ci dev’esser qualcosa di vero in coteste illusioni che spalancano il cuore a due battenti verso tutto quello che è nobile e bello!…» esclamò lasciandosi dominare dalla commozione. E poscia come pentitosi, rifacendosi scuro in volto: «Ma è poi vero che sia nobile e bello ciò che mi è parso anche ridicolo un giorno?…»
«Un giorno di febbre o di sconforto!..»
«Potresti assicurarmi quali sieno i giorni di sereno, per giudicare con esattezza dei sentimenti, tu che hai amato e odiato la stessa cosa, che ne hai pianto e riso nel medesimo giorno?» domandò con quel sorriso che voleva sembrar cinico ed era una contrazione dolorosa del suo cuore. E lasciando più libero varco alla sua amarezza mormorò: «Non c’è altro di vero che la modificazione dei nostri nervi o la temperatura del nostro sangue».
«La tua scienza è desolante! È la scienza del nulla!»
«È vero!»
«Non hai ma pensato alla tua famiglia?»
Egli trasalì e si fece pallido; accennò due o tre volte a voler parlare, e le labbra gli tremavano.
«Io l’ho abbandonata per correre dietro a quelle larve!» mormorò con voce soffocata. «E allora ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero, se il più forte o il più puro…È stato un gran dolore!…Ma il dolore è una debolezza, non è una verità…e dei due affetti sai quale ha vinto…nel mio cuore entusiasta e vergine?… ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale…Ora dimmi tu le tue frasi sonore; io ti getterò fra i piedi i fatti eloquenti.»
Io non avevo mai amato, o almeno cotesto sentimento che era sparso in tutto il mio essere non si era incarnato in una figura di donna. Ero superbo della mia arte, superbo di me che la sentivo degnamente, e ciò mi rendeva quasi geloso di me medesimo. I miei sogni erotici non erano mai scesi più giù di una duchessa, cui prestavo gratuitamente tutti i miei entusiasmi, e piedi che non si erano mai posati sul lastrico delle vie, e mani che nessuno aveva mai visto senza guanti, all’infuori di me. E aspettando la duchessa che non veniva, io facevo all’amore coi miei quadri, sognavo i capelli biondi della cameriera che spolverava le tende della finestra di faccia alla mia – i soli capelli – o le linee graziose degli omeri della modista che vedevo tutti i giorni dietro la vetrina in via Rondinelli. Nella comprensione dell’arte c’è una squisita sensualità; la bellezza plastica che compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascinamenti, ancora verginali ma potentissimi.
La mia vita scorreva serenamente in un mondo che m’ero creato colla mia fantasia. Non avevo mai rivolto un solo sguardo di desiderio su quei piaceri di una grande città che mi passavano sotto gli occhi, sebbene ad una certa distanza, e come in una nube; oppure se ne avevo provata la curiosità, con un amaro sentimento di privazione, m’ero rifugiato nella mia arte come nelle braccia di un’amante. Il mio più grande divertimento era quello di andare a teatro la domenica. Avrei preferito, è vero, quegli spettacoli che parlano più vivamente all’immaginazione, come l’opera in musica ed il ballo; ma erano spettacoli che costavano cari, e in ciascun mese ci son quattro o cinque domeniche – troppo lusso per un bilancio di centocinquanta lire.
Ora se ti dirò che senza fare un buco nel mio bilancio io non avrei fatto uno strappo nel mio cuore, che se una domenica non fossi andato alla Posta per riscuotere un vaglia non avrei visto forse il cartellone della Pergola; e se non avessi finito il giorno innanzi un lavoro di cui ero soddisfattissimo, e il sole di quella domenica non mi fosse perciò sembrato in festa come il mio cuore, io avrei visto il cartellone senza pensare a fare un buco nel mio bilancio, tu mi darai del fatalista… Farai come tutti gli altri, ti sbarazzerai con una parola di un esame increscioso.
Andai dunque alla Pergola di buon’ora per trovare un posto in platea; e lì, nella semi-oscurità, col mio paletò piegato sulla spalliera, l’ombrello fra le gambe, il cappello sull’ombrello, l’occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto d’ingresso esaminando tutto, le dorature dei palchi, il leggio del suggeritore, i lumi della ribalta, e soprattutto l’ora che segnava l’orologio.
I palchetti si andavano popolando di belle signore, – almeno avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle. Degli uomini poi ce n’erano così ben vestiti e così ben rasi, e colle testine così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d’occhi spalancati, come io guardavo loro, e istintivamente mi nascondevo le mani nude sotto il cappotto.
Squillò un campanello; un’onda di luce invase quella splendida sala, e incominciò la rappresentazione. Io ascoltavo, guardavo, tutto commosso e rimpicciolito nel mio cantuccio; il mio entusiasmo non si manifestava altrimenti che come una gran soddisfazione di aver ben impiegato le mie tre lire. Avevo comprato per tre sole lire un tesoro di emozioni. Costruivo un paradiso di matte aspirazioni, di sogni e ne cercavo il riflesso negli occhi scintillanti di quelle belle dame. – E quando le vedevo parlare e ridere sbadatamente, agitando il ventaglio o aggiustando il fisciù, provavo una molesta sensazione, e mi scuotevo bruscamente, come se m’avessero svegliato di soprassalto da un sogno delizioso.
Vedi, mio caro, quante belle cose ci sono in tre lire per uno spettatore novizio?
Alcuni istanti prima del ballo corse per la folla un mormorio di aspettazione. Io sentivo come allargarmisi il cuore, e aggiustavo macchinalmente il mio cappello sull’ombrello. Improvvisamente apparve una scena incantata, riboccante di suoni, di luce, di veli e di larve seducenti che turbinavano nelle ridde più voluttuose – come una fantasmagoria di sorrisi affascinanti, di forme leggiadre, di occhi lucenti e di capelli sciolti. Poi, quando quella musica fu più delirante, quando tutti gli occhi erano più intenti, e tutti gli occhialetti si affissavano bramosi sulla scena, corse un nuovo susurrio: «Eva! Eva!» e in mezzo a un nembo di fiori, di luce elettrica, e di applausi, apparve una donna splendente di bellezza e di nudità, corruscante febbrili desideri dal sorriso impudico, dagli occhi arditi, dai veli che gettavano ombre irritanti sulle forme seminude, dai procaci pudori, dagli omeri sparsi di biondi capelli, dai brillanti falsi, dalle pagliuzze dorate, dai fiori artificiali. Diffondeva un profumo di acri voluttà e di bramosie penose. Guardavo stupefatto, colla testa