Eva. Giovanni Verga
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Giorgio quest’altra volta era accanto a me, in teatro, e guardava cogli occhi spalancati quella donna circondata dagli stessi splendori, e irradiante le medesime ebbrezze. E a rispondere colla sua ammirazione al mio sarcasmo, esclamava quasi fra sé: «Perdio!… com’è bella!…»
«Oh! Sì! Sì! Ed è qualcosa che irrita, che fa dispetto, questa bellezza alla cui presenza il cuore si contorce di spasimo e la ragione diventa vigliacca, cotesta profanazione del bello che, sorridente e non curante, calpesta colle sue scarpine di raso tutto quello che abbiamo creduto puro e santo – la donna, l’amore, l’ideale. – Vedi, essa mi ha messo la febbre nel sangue, ed io mi sento come schiaffeggiato.»
«Mio caro» esclamò Giorgio uscendo fuori dai gangheri «qualche volta io credo che tutte le nostre creazioni rachitiche non valgano un capello della schietta bellezza fisica.»
«Ah! sì, per esempio cotesta vale tre lire.»
«Oh!»
«Sì, ella vende per tre lire le sue spalle, il suo seno, le menzogne dei suoi sguardi, i baci del suo sorriso, il suo pudore, per tre lire, a me, a te, a quel grasso signore con l’occhio imbambolato dal vino, a quel giovane che le getta in faccia i suoi sozzi desideri con esclamazioni da trivio, a quell’elegante annoiato che fissa su lei il suo occhialino distratto dal fondo del suo palchetto, a quella signora che non si fa pagare la seminudità, ma che la guarda con disprezzo. Tutto ciò non vale che tre lire; ella ebbra, procace, in mezzo a gente che ha la testa a segno, e qualche volta il sorriso o la curiosità insultante!… Nelle medesime condizioni la cortigiana ha su di lei il vantaggio di aver di faccia un uomo abbietto e ridicolo del pari.»
«Essa ha udito tutto quello che hai detto di lei!» rispose ridendo Giorgio che da qualche istante non mi dava più retta.
Io trasalii, spiegamene tu il motivo, se puoi.
«Davvero?» esclamai come se fosse stato possibile.
«Sì. Non vedi come ci guarda?»
Allora mi accorsi che la mia sorpresa e la mia credulità erano ridicole, e giacché mi sentivo umiliato, senza saperne il perché, ammutolii.
Giorgio era partito prima di me. Quando fui per uscire mi si avvicinò un inserviente del teatro e mi porse un biglietto.
«A me?» esclamai sorpreso.
«Sissignore, mi fu ben indicato.»
«Da chi?»
«Dalla signora Eva.»
«Eh?!…»
«Che l’aspetti nel vestibolo. Verrà fra mezz’ora.»
La mia sorpresa era tale che non potei metter fuori una sola delle interrogazioni che mi si affollavano in mente.
Apersi il biglietto e lessi:
« Non siete venuto: perché? Se volete accompagnarmi dopo il ballo, aspettatemi nel vestibolo. «
Rimanevo come sbalordito dalla sorpresa, leggendo e rileggendo quelle due o tre righe, sentendomi serpeggiare fiamme ignote per le vene, provando improvvisi ed inesplicabili turbamenti. Gli spettatori, gli artisti, gli impiegati del teatro erano tutti partiti gli uni dopo gli altri; i lumi erano stati spenti; non rimaneva che qualche fiammella di gas per i corridoi, e il lampione di un fiacre che si riverberava sull’invetriata del vestibolo. Avrai osservato come in certi momenti eccezionali un oggetto insignificante assorbisca tutta la nostra attenzione e s’inchiodi nel nostro cervello. – Quel lume che brillava al di fuori esercitava una specie di fascino sui miei occhi, e sembrava mi penetrasse sino al cuore con un raggio di fuoco. Non sapevo da qual parte ella sarebbe venuta, e al menomo rumore che udivo su per le scale o pei corridoi il sangue mi si rimescolava tutto. Venti volte provai una gran tentazione di scappar via. Avevo paura, ecco!
Udii un leggero fruscio di seta dietro a me; uscì dall’ombra di un corridoio una donna tutta infagottata nelle sciarpe, nelle pellicce, e col velo sul viso. Attraversò quasi correndo il vestibolo; passò la sua mano sotto il mio braccio, senza dirmi una sola parola; spinse l’usciale, e mentre raccoglieva lo strascico della veste per montare in carrozza, mi disse con voce soffocata sotto il cappuccio e il velo: «Venite.»
Appena fui seduto al suo fianco calò il cristallo, sporse il viso in fuori, ed ordinò al cocchiere:
«Ai colli.»
Poscia sollevò il cappuccio che le veniva fin sugli occhi, gettò il suo velo all’indietro, e si volse a guardarmi fisso, senza dir motto, con un’aria di curiosità insistente, e quasi fanciullesca. Erasi sdraiata in un angolo del legno, col capo rivolto dalla mia parte. Sembrava assai stanca, e faceva scorrere quell’occhio curioso su tutta la mia persona, dal capo alle piante.
A un tratto si rizzò sulla vita, e mi domandò semplicemente:
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