Il processo Bartelloni. Jarro

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Il processo Bartelloni - Jarro

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alla testa, sia da varii mesi obbligato a guardare il letto…

      – Costrutto francese! costrutto francese! – brontolò l’auditore Biscotti.

      – A stare a letto, dunque, signor auditore, si calmi!… È provato che la ferita abbia messo in grave pericolo la vita del signor Gandi?

      «È provato, in specie, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

      «È provato che lo facesse a scopo di furto e con premeditazione?

      «È provato che l’inquisito fosse in stato mentale, come ha dedotto la difesa, tale da escludere, o diminuire la sua imputabilità?»

      – Ah se mi fosse toccato ieri sera l’asso di cuori! – pensava tra sè l’auditore Cometti!

      – Questa causa è grave, molto grave, secondo me – riprese il presidente – Non so quali sieno i pareri degli egregî auditori, ma quanto a me dichiaro che il libello fiscale non mi ha lasciato molto persuaso.

      – Come? Come? – domandò subito esasperato l’auditore Pantellini – lei può dubitare della reità dell’inquisito?

      – Sì, signor auditore, io ne dubito…

      – Ed io pure e da un pezzo! – interruppe l’auditore Lechini.

      – Mi sembra che anche scartando.... molte prove – soggiunse l’auditore Comettini, che aveva sempre per la mente un resto di partita a calabresella – ci rimangano pur sempre prove irrefragabili....

      – Se ci rimangono!… Ma dica che a ogni parola del processo si moltiplicano! – replicava ingrugnito il relatore.

      – Prove… prove: è presto detto. Ma scrutiamole un poco, ventiliamole queste prove… Non si accorgono, lor signori, quanto appunto ci sia deficienza di prove assolute sulla origine del delitto?… Ecco, io apro il processo a pag. 26. Leggo la querela, in atti, dello Scrivano della Piazza. Stiano bene attenti! in questo documento è dichiarato che le prime traccie del sangue furon trovate nel Vicolo dinanzi alla porta della stanza segnata col num. 5.

      – È chiaro – continuò il presidente – che l’assassinato ha ricevuto davanti a questa porta la ferita, l’ha ricevuta, cioè, dopo aver fatto alcuni passi nel Vicolo. È spiegato, è provato bene come il signor Gandi abbia potuto essere indotto a inoltrarsi a tale ora, in tal luogo? Per ricevere la ferita alla testa da un giovane di piccola statura come l’inquisito, è evidente che egli ha dovuto chinarsi, prestarsi all’aggressione… In che modo?… Il pugnale, che ha prodotto la ferita è stato brandito da mano robusta… Ora l’inquisito ha appena la forza di un fanciullo. Avranno osservato, durante l’udienza, che il suo braccio trema con una specie di movimento paralitico…

      – Solite simulazioni di questi furfanti! – interruppe l’auditore Pantellini.

      – Per ammettere che tutto ciò che ha fatto, o detto l’inquisito sia una simulazione, bisognerebbe ammettere che egli sia dotato di una intelligenza veramente straordinaria… Egli non si è smentito un momento… Per varii mesi è stato sempre eguale a sè stesso, non si è tradito un solo istante.... Dove ha attinto questa forza d’intelletto, questa sagacità un giovinastro, che sino a che non è stato arrestato, fu sempre creduto uno stolido, un imbecille?… Ci sono certi ragguagli insignificanti, in apparenza, ma de’ quali noi, cui è affidato un sì prezioso tesoro, l’onore, la tranquillità, la felicità talvolta dei nostri simili, siamo obbligati a tener conto. Non vi è nulla anzi di piccolo, d’insignificante per la giustizia.

      – Il signor Presidente è stato convertito dal canto di sirena dell’avvocato Arzellini! – osservò con piglio ironico, il relatore della causa.

      – No, caro auditore, io non mi lascio convertire, ma neppure mi ostino contro le evidenze, che mi porgono la scienza e la ricerca della verità. Mi ascolti. Abbiamo un ragguaglio, che ricorre più volte nel processo. L’inquisito la sera in cui fu commesso il delitto, è stato udito cantare. Ha cantato spesso, nel carcere: talora, lasciando il cibo e interrompendo di parlare con coloro che l’interrogavano… ha cantato all’udienza. Queste vociferazioni sono considerate come un espediente, di cui l’inquisito si serve a sviare l’accusa. Però si dice che egli è rimasto colto nella propria rete: volendo ingannare, ha rivelato invece la propria malizia perchè la sera del 14 gennaio egli cantava, ripetendo con precisione l’aria eseguita dal testimone Pardili sul violino; all’udienza cantava un’aria, che si è verificato esser quella eseguita, sull’organetto, da uno zingaro che passava per la strada in quel momento. Dunque, si conclude, egli non è stolido, non è idiota, è intelligente.

      – Sicuro! sicuro! – bofonchiava l’auditore Pantellini.

      – Ma, no, signor auditore! Posso mostrarle libri di scienziati, provarle con casi antichi e recenti che ci sono veri e propri idioti, i quali hanno speciali attitudini per la musica, si commovono, si esaltano all’udire melodie, le ritengono con estrema facilità, le ripetono con orecchio sì fine da disgradarne certi artisti dei teatri minori. Alcuni arrivano a suonare e ad inventare delle arie.... Questo delinquente, che cantava con premeditazione al momento di commettere il delitto, e ha cantato all’udienza, è troppo abile e troppo incauto al tempo stesso; per credere alla sua prodigiosa penetrazione, alla sua acutezza, ci vuole, mi lascin pur dire, uno sforzo maggiore che per credere alla sua innocenza, alla sua irresponsabilità.

      Le sottili osservazioni del valoroso magistrato andavano perdute.

      Gli auditori, Pantellini, Comettini e Salti non dissimulavano più i gesti della loro impazienza.

      Il presidente non li vedeva. Egli era tutto assorto nella sua teoria.

      – Le perizie estragiudiciali sono dovute ad uno scienziato eminente, ad uno di quegli osservatori perspicaci, che hanno studiato i fenomeni morali con una pazienza sublime. Ciò che si dice sulle condizioni mentali dell’inquisito, confesso, che mi ha colpito… Egli ha apparenza in certi istanti di uomo ragionevole, ma l’esistenza in certi infermi della mente di una facoltà qualunque, di una attitudine speciale, superiore, se vuolsi, non solo alle altre, ma eziandio a quelle degli uomini psichicamente sani, pone spesso in inganno gli osservatori superficiali… Io sento che abbiamo dinanzi un tipo degenerato: un eccentrico piuttosto che un delinquente.

      – Ah, ma queste, scusi, sono utopie! – disse con la sua voce stridula il Pantellini.

      – Ed io l’assicuro, signor auditore – ribattè il presidente – che la mia coscienza è molto titubante, e molto agitata. Io sono turbato da un’idea che mi è tornata spesso alla mente durante il processo, che cioè l’origine del delitto commesso la sera del 14 gennaio è sempre un mistero per la giustizia: che esso ci sfugge nel suo complesso: che non ne abbiamo in poter nostro che una parte accidentale. Una voce, che non posso far tacere, la voce della mia coscienza, mi grida che il sangue, di cui fu trovato cosparso l’inquisito, non è stato versato da lui. Egli è la vittima di un delinquente accorto quanto feroce. Nella debolezza del suo intelletto, invece di difendersi, egli si accusa, corre da sè incontro al precipizio.

      Il magistrato, con la sua esperienza, con la sua squisita sensibilità, con la sua profonda intelligenza, vedeva, in quel momento d’immensa lucidità, la vera condizione del fatto luttuoso di cui la Rota doveva giudicare.

      La sua mirabile intuizione parve a un tratto dissipare le oscurità del processo.

      Nessuno fino allora aveva scrutato con tanta chiaroveggenza nell’intricatissimo e tenebroso affare.

      Svolse più ampiamente le circostanze di fatto, le prove, le risultanze del processo, e finì esclamando:

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