I Pirati della Malesia. Emilio Salgari
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Lo spettacolo era grandioso e insieme spaventevole.
All’intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille boati, frangendosi e rifrangendosi sulle scogliere, trascinando seco frammenti di murate, di madieri, di corbetti e di imbarcazioni che si urtavano con mille scricchiolii.
Sul tre-alberi i superstiti, quasi tutti pazzi di terrore, correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille bestemmie, mille invocazioni. Uno s’arrampicava sulle griselle, un altro si spingeva fino alle coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Un quarto invece saltellava come se fosse sui carboni ardenti chiamando Dio e la Madonna chi s’affannava a passarsi attraverso al corpo un salva-gente, e chi a preparare un galleggiante per montarvici su, appena la nave si fosse sfasciata.
Il capitano Mac Clintock e mastro Bill, che ne avevano viste di peggio, erano i soli che conservassero un po’ di calma.
Visto che il tre-alberi rimaneva immobile, come se fosse stato inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere nella stiva.
Videro subito che non v’era più speranza di rimetterlo a galla, poiché era già zeppo d’acqua.
– Orsù – disse mastro Bill con voce commossa, – la poveretta ha esalato l’ultimo respiro!
– Hai ragione, Bill – rispose il capitano ancor più commosso. Questa è la tomba della valorosa Young-India.
– E che cosa faremo?
– Bisogna aspettare l’alba.
– Resisterà ai colpi di mare?
– Lo spero. Le scogliere sono penetrate nel ventre come un cuneo nel tronco di un albero. Mi sembra irremovibile.
– Andiamo a incoraggiare quelli che sono sul ponte. Sono mezzi morti di paura.
I due lupi di mare risalirono sul ponte. I marinai ed i passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro incontro interrogandoli con viva ansietà.
– Siamo perduti? – chiedevano gli uni.
– Andiamo a picco? – chiedevano gli altri.
– C’è speranza di salvarsi?
– Dove siamo?
– Calma, ragazzi – disse il capitano. – Non corriamo per ora pericolo alcuno.
L’indiano Kammamuri, che aveva mostrato di aver tanta fretta d’arrivare a Sarawak, si avvicinò al comandante.
– Capitano – chiese con voce tranquilla, – andremo a Sarawak?
Vedi bene che non è possibile, Kammamuri.
– Ma io devo andarci.
– Non so cosa dirti. Il vascello è immobile come uno scoglio.
– Ho il padrone laggiù, capitano.
– Aspetterà.
Lo sguardo vivo e scintillante dell’indiano si fece cupo e la sua faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne tetra.
– Kalì li protegge – mormorò.
– Tutto non è ancora perduto, Kammamuri – disse il capitano.
– Non affonderemo dunque?
– Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi. Domani sapremo su quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si potrà fare. Io garantisco le vostre vite.
Le parole del capitano fecero buon effetto sugli animi dei marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi salvare. Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi dopo un po’ d’esitazione si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato.
Del resto la burrasca, dopo d’aver raggiunta la massima intensità, cominciava a scemare. I nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano intravvedere di quando in quando il tremulo luccichìo degli astri. Il vento, dopo d’aver fischiato, urlato, ruggito, si calmava a poco a poco.
Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l’imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno.
Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell’albero di maestra, con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura, che doveva essere una terra.
– Ebbene, capitano – chiese il nostromo che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, – la conoscete quella terra?
– Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell’isola sia Mompracem.
– By God! – mormorò l’americano facendo una smorfia. – Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo.
– Lo temo purtroppo, Bill. L’isola non gode buon nome.
– Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della Malesia, capitano.
– Che? – esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre per le ossa un brivido. – La Tigre della Malesia tornata a Mompracem?
– Sì.
– È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile individuo è scomparso.
– Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì l’Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a prua di un praho.
– Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci.
– By God! – urlò il mastro, divenendo di colpo pallidissimo.
– Che cos’hai?
– Guardate capitano! Guardate laggiù!…
– Dei prahos, dei prahos! – gridò una voce dal ponte.
Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l’isola e scorse quattro legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia.
Erano quattro grandi prahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi triangolari.