I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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alla casa Francalanza c’era sempre una fiera, per le tante carrozze aspettanti, pel tanto popolo fremente d’impazienza. Dal portone socchiuso vedevasi un’altra folla ragunata nei due cortili, uno sciame di servi con le livree nere che andavano e venivano, il maestro di casa senza cappello che s’affannava a dar ordini, la carrozza di gala a quattro cavalli che sarebbe servita da carro funebre. Quando finalmente le due pesanti imposte girarono sui cardini, tutte le teste si voltarono, tutte le persone s’alzarono sulle punte dei piedi. Veniva innanzi la fila dei frati Cappuccini con la croce, poi la carrozza funebre, dentro alla quale si vedeva il feretro di velluto rosso, fiancheggiata da tutta la servitù con le torce in mano; poi l’Ospizio Uzeda dei vecchi indigenti, tutti a testa nuda; poi le ragazze dell’Orfanotrofio coi veli azzurri pendenti fino a terra; poi tutte le carrozze di famiglia: altri due tiri a quattro, cinque tiri a due, e poi ancora un altro gruppo di gente: una quarantina d’uomini, la più parte barbuti, con le giubbe di velluto nero, anch’essi coi ceri in mano.

      «Chi sono?… Di dove spuntano?…»

      Erano i zolfai delle miniere dell’Oleastro chiamati apposta da Caltanissetta per l’accompagnamento della padrona: quest’ultimo accessorio finiva di sbalordire tutti quanti: ancora non s’era vista una cosa simile!… Ma gli equipaggi che s’avanzavano da ogni parte per mettersi in fila sbaragliavano la calca: tiri a quattro che venivano a prendere i primi posti, tiri a due che rinculavano scalpitando tra un fitto schioccar di fruste; e i curiosi, a rischio di lasciarsi pestare sotto i piedi delle bestie, li venivano riconoscendo dagli stemmi degli sportelli e anche dai cocchieri:

      «Il duca Radalì… il principe di Roccasciano… il barone Grazzeri… i Cùrcuma… i Costante… non manca nessuno!…»

      Di repente tutti si volsero a un lontano vocìo:

      «Che è?… Che cos’è stato?… La carrozza di Trigona!… Il cocchiere non vuole andare in coda, gli altri non cedono il posto… Ha ragione!… Questi sono soprusi!…»

      Il cocchiere del marchese Trigona, appunto, quantunque guidasse un trespolo tirato da due ronzinanti, non voleva mettersi in coda dove c’erano le carrozze dei non nobili più belle della sua. E Baldassarre, tutto in sudore per la fatica sostenuta nell’ordinare il corteo, nel far rispettare le precedenze, s’avanzava per dar ragione al cocchiere, aprendosi a stento il varco tra la folla, allungando ceffoni ai monelli che gli si mettevano fra i piedi, ingiungendo: «Largo!… largo!…» mentre una buona metà dell’accompagnamento s’era avviata.

      Il mortorio sonato da tutte le chiese della città chiamava gente da ogni parte sul suo passaggio; ma specialmente il campanone della cattedrale sospingeva a frotte i curiosi. Sonava a morto solo pei nobili e i dottori, e il suo nton nton grave e solenne costava quattr’onze di moneta; talché la gente, udendo la gran voce di bronzo, diceva: «Se n’è andato qualche pezzo grosso!»

      E ancora buon numero di carrozze, dopo quella di Trigona, aspettavano d’incamminarsi, che già la testa del corteo fermavasi ai Cappuccini.

      Impossibile portare in chiesa la bara dalle scale. Non già che pesasse molto, ché anzi era vuota; ma la ressa, sulle scale, cresceva, nessuno poteva andare né avanti né indietro, solo il cannone avrebbe potuto far luogo. Bisognò girare la situazione, aprire un varco fra la turma che gremiva la salita del Santo Carcere e di San Domenico e portare il feretro dal convento e dalla sacrestia: trascorse quasi un’ora prima che fosse posto sul catafalco.

      I sonatori avevano già preso posto sul palco e sfoderato i loro strumenti, i frati accendevano con le canne lunghe i ceri dell’altar maggiore. E i curiosi stipati nella chiesa, continuando a parlar della morta, si rivolgevano insistentemente una domanda e si proponevano una quistione: «Chi sarà l’erede?..» Nobili e plebei, ricchi e poveri, tutti volevano sapere che direbbe il testamento, come se la morta avesse potuto lasciar qualcosa a tutti i suoi concittadini. Aspettavano, al palazzo, l’arrivo del contino da Firenze e del duca da Palermo per leggere le ultime volontà della principessa; e le opinioni, nel pubblico, erano diametralmente opposte: alcuni sostenevano che tutto sarebbe andato al contino; ma, quantunque la defunta odiasse il primogenito, era proprio possibile che lo diseredasse? «Nossignore: tutto andrà al primogenito: è vero che non lo poteva soffrire, ma è il capo della casa, l’erede del principato!…»

      Un nuovo pigia pigia troncò di botto ogni discorso, infittì la folla in fondo alla chiesa: entravano le orfanelle del Sacro Cuore con le vesti verdi e gli scialletti bianchi; Baldassarre, tutto vestito di nero, le dirigeva verso l’altar maggiore, ingiungendo:

      «Largo, largo, signori miei!…»

      Un bambino, mezzo soffocato tra la calca, si mise a strillare; un mendicante, riuscito ad entrare, inciampò contro un gradino d’altare e cadde per terra.

      BENEFICENTE

      COI DERELITTI

      L’OBOLO DELLA CARITÀ

      TI FIA RESO

      CENTUPLICATO

      CON L’ESPIATORIE PRECI

      Don Cono declamava, a bassa voce, l’altra iscrizione al canonico Sortini che aveva pescato tra la folla:

      «Conciliar l’invenzione del concetto con la venustà della forma: difficoltà precipua dello stile epigrafico… L’obolo… centuplicato… non so se mi appongo…»

      Adesso l’altar maggiore era tutto una fiamma, dai tanti ceri; il movimento dei frati e dei sagrestani cresceva; sul palco della musica accordavano gli strumenti, un clarino sospirava, gli archetti stridevano, un contrabbasso borbottava; e Baldassarre, aiutato dai camerieri di tutta la parentela, vestiti di nero anch’essi, faceva disporre due file di sedie pei vecchi e le orfanelle: le sedie, tenute alte sulla folla, parevano navigare sul mar delle teste, e poiché sempre nuova gente entrava a furia, la ressa era terribile. I fiati, l’odor di moccolaia, il caldo della giornata facevano della piccola chiesa una bolgia; alcune donne erano già svenute, in due o tre punti si litigava fra chi voleva spingersi avanti e chi non voleva tirarsi indietro; ma nessuno si decideva ad andarsene; e negli angoli, lungo i muri, avanti agli altari, i curiosi, gli scioperati rifacevano la storia della morta e della famiglia, ne commentavano le stravaganze:

      «La cassa con tre chiavi!… Sarà tanto più difficile tornare a questo mondo!… E la tonaca e il rosario!… Tanta penitenza con un funerale da regina!»

      A voce più bassa le male lingue aggiungevano:

      «Dopo l’allegra vita!…»

      Accanto alla pila dell’acqua santa, in mezzo a un crocchio di nobilastri invidiosi e a corto di quattrini, don Casimiro Scaglisi annunziava:

      «E il principe? Non sapete che ha fatto il principe? Quand’ebbe la notizia della morte della madre, scappò al Belvedere senza far chiudere il portone, per avere il tempo d’arrivar solo alla villa, e senza avvertir Ferdinando alla Pietra dell’Ovo…»

      Alcuni protestarono: don Casimiro confermò:

      «Se ve lo dico io!… Per aver tempo di maneggiarsi, di far sparire carte e denari!»

      Tutt’intorno scrollavano il capo: don Casimiro parlava così per astio, giacché fin a tre giorni addietro era stato lavapiatti di casa Francalanza, ma fin da quando la principessa era andata in campagna, il principe non l’aveva più ricevuto, credendolo iettatore.

      «Del resto, scusate,» gli facevano osservare, «che bisogno aveva mai il principe d’allontanare Ferdinando?»

      «Sissignori, fa la vita del Robinson

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