I Vicere. Federico De Roberto
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Un altro osservò:
«Non parlate male di Ferdinando; con le sue manìe non fa male a nessuno; è il migliore di tutta la casata.»
«Tanto che non parrebbe dello stesso seme…» rispose don Casimiro.
«Sst, sst! Siamo in chiesa,» gl’ingiunsero.
«Passa don Cono.»
Don Cono adesso traversava la chiesa per leggere l’iscrizione posta sulla pila dell’acqua benedetta; come fu giunto vicino al crocchio, lo fermarono:
«Don Cono!… Don Cono!… Voi che avete la vista lunga; come dice lassù?»
E don Cono compitò:
IN QUESTO TEMPIO
OVE IL FRALE SI ACCOGLIE
DELLA BEATA UZEDA
CORROBORATE
FIENO LE PRECI
DALL’INTERCESSORA PARENTE
«Bellissimo! Bravo!… Bene l’intercessora…» esclamarono in coro; ma un «sst» prolungato passò di repente di bocca in bocca: il maestro Mascione, appollaiato in cima al palco dell’orchestra, aveva picchiato tre colpi sul leggìo; e le conversazioni morirono, tutte le teste si volsero verso i sonatori.
In mezzo all’attenzione generale don Casimiro urtò a un tratto col gomito i vicini, esclamando piano:
«Guardate! Guardate!»
Entrava in quel punto, protetto contro la folla dal servitore, il vecchio don Alessandro Tagliavia: nonostante l’età, reggeva ancora diritta l’alta persona e dominava la folla con la bella testa bianca e rosea, dagli occhi chiari com’acqua marina e dai baffi bionditi dal tabacco. Non potendo avanzare, guardava da lontano il catafalco, il palco della musica, le tabelle degli epitaffi; e intanto, nel silenzio fattosi come per incanto, l’orchestra intonava il preludio: un lungo gemito, suoni rotti in cadenza come da brevi singulti si diffondevano per la chiesa, e le piangenti riprendevano a lacrimare, mentre i monaci, dinanzi all’altare, cominciavano le genuflessioni. Molti capi si chinarono, al sordo vocìo sottentrò un raccoglimento profondo.
«Guardate!…» ripeté don Casimiro, nel gruppo accanto alla pila. «È venuto a dirle l’ultimo addio!»
Tutti avevano gli occhi fissi sul vecchio: il lavapiatti a spasso continuò, interrompendosi quando l’orchestra taceva:
«Ed io che me lo rammento piangere come un bambino… come un disperato… quando la morta lo lasciò per Felice Cùrcuma… dopo quello che c’era stato fra loro!…Adesso lei è a marcire al colatoio… Lui camperà vent’anni ancora: una salute di ferro…» A voce più bassa, mentre le trombe tratto tratto squillavano e le voci cantavano Requiem aeternam dona eis, aggiunse: «Ed ha la sua brava ragazza, in una villetta al Borgo… Tutte le sere le passa con lei!…»
Il vecchio tentava ancora di avvicinarsi ad una iscrizione; ma poiché, principiata la messa, nessuno più si moveva, tornò indietro. Giunto sulla porta della chiesa, colpendogli l’aria fresca la fronte, si calcò il cappello sulla testa che non era ancor fuori.
«Sic transit gloria mundi!…»
Però, passato il primo effetto della musica, le conversazioni andavano qua e là riappiccandosi; e Raciti, il primo violino del Comunale, borbottava in mezzo agli sconosciuti: «Bell’apparato, non c’è che dire; bella funzione!… La quistione è di sapere chi pagherà!»
Era furente, dopo che il signor Marco aveva preferito la messa di Mascione a quella di suo figlio; ma si consolava sparlando della casata: non c’era l’eguale per la stitichezza nel pagare; e Titta Caruso, il bollettinaio del teatro, ne sapeva qualcosa, costretto com’era ogni anno a far cento volte le scale del palazzo prima di vedersi pagato l’appalto del palchetto: oggi non c’era il principe, domani non c’era la principessa, un’altra volta mancava il signor Marco, poi erano tutti in campagna…
«Mio figlio Salvatore non voleva offrir loro la sua messa? Meglio sonarla gratis per le anime del Purgatorio; almeno se ne guadagna altrettanta salute all’anima!»
E voltò le spalle, furioso, per andarsene, mentre intonavano il Tuba mirum rubato al Palestrina!… Come lui, erano venuti in chiesa quanti eran corsi nei primi momenti al palazzo per offrire i loro servigi; ma i rimasti a mani vuote tiravano adesso in ballo le storie d’avarizia e d’intima spilorceria di quella famiglia il cui lusso era solo apparente: la principessa, una volta, non aveva fatto citare dinanzi al giudice il suo calzolaio perché le restituisse il prezzo di un paio di scarpe non riuscite di suo gradimento? E in cucina, il cuoco non aveva l’ordine di scolar l’olio rimasto nella padella dopo la frittura per riconsegnarlo alla padrona?
«Più sono ricchi, cotesti porci, più sono spilorci!…»
Un «zitti!» imperioso troncò le chiacchiere: l’orchestra intonava il Che dirò io misero? e la gente che stava attenta alla musica non voleva esser disturbata. Ma dopo un momento le conversazioni si riannodarono. In certi crocchi di liberali, vantavano il patriottismo del duca Gaspare, sottovoce, però, e guardandosi intorno per paura che qualche spia non udisse.
«Un colpo al cerchio e un altro alla botte!» esclamava don Casimiro accanto alla pila. «In questa casa chi fa il rivoluzionario e chi il borbonico; così sono certi di trovarsi bene, qualunque cosa avvenga! La ragazza Lucrezia non fa la liberale per amore di quello sciocco di Benedetto Giulente?…»
Il barone Carcaretta, unitosi ai maldicenti, protestò:
«Non daranno mai un’Uzeda a un Giulente!»
E don Casimiro:
«Per questo io dico che il Giulente è uno sciocco…»
«Silenzio, eccoli lì.»
Il giovanotto infatti entrava in quel momento insieme con suo zio don Lorenzo, il celebre liberale lavapiatti del duca.
«E così?» domandò don Casimiro, «quando la farete questa rivoluzione?»
«Non lo diremmo a voi, in ogni caso», rispose Benedetto sorridendo. Allora l’altro si rivolse allo zio:
«E il vostro amico, il duca? Gli muore la cognata, i suoi nipoti l’aspettano, e non parte subito? Che sta macchinando?»
«A voi che importa?»
«A me? Un fico secco! Io non faccio il lavapiatti a nessuno!»
«I lavapiatti» rispose don Lorenzo, «dovete sapere che io li ho tenuti sempre in cucina…»
«Silenzio!… Siamo in chiesa.»
La preghiera ieratica diceva giustamente: «Serbami un posto nel gregge.» Ma don Casimiro non voleva riconoscere che il dispiacere di non goder più dell’intimità degli Uzeda lo animava contro di loro.
«Bestioni!» esclamò, quando i due Giulente si allontanarono. «Mi diranno poi come finirà loro, con quei birbanti!»
Il principe di Roccasciano, che aveva girato per la chiesa sballottato dalla folla, fu sospinto in mezzo al gruppo; tutta la sua persona, così piccola e magra che pareva fatta in economia, esprimeva uno straordinario stupore:
«Signori