La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
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Intanto Federigo lasciato Napoli si porta a Genova, poi ad Aquisgrana, dove Re dei Romani lo confermarono. In questa, Ottone muovendo contro Filippo Augusto di Francia pervenne al ponte di Bouvine, tra Lilla e Tournay, dove il 27 luglio 1214 toccò la memorabile rotta, per la quale disperando di più risorgere si ritirò al castello di Harburgo a piangere le sue colpe, e logorare tra le penitenze la vita. Innocenzio percosso da gravissima malattia si moriva: fu egli uomo di molta dottrina, delle cose legali intendentissimo profondo, cupido di regno. Il suo Pontificato va famoso pel fondamento che dette alla Inquisizione; imperciocchè sebbene il Tribunale del Santo Officio, propriamente detto, cominci sotto Innocenzio IV, pure fu Innocenzio III, che commise a San Domenico di Guzmano predicasse contro gli Albigesi, e con ogni sforzo s›ingegnasse a distruggerli.
Erano gli Albigesi una setta di Manichei fuggiti dall›Asia per le persecuzioni degl›Imperatori Greci, e ricovrati in Linguadoca presso il Conte Raimondo di Tolosa: si chiamarono anche con diversa denominazione Paterini, da Puti (soffrire), per distinguersi dai Martiri della Chiesa cattolica. Consisteva la eresia loro nel credere la esistenza di due principii, l’uno buono, l’altro tristo. Attribuivano al primo il Testamento Nuovo, al secondo il Vecchio: negavano la discesa corporale del Salvatore su la terra; credevano gli uomini angioli decaduti, che dovevano tornare un giorno alla gloria antica; rigettavano le indulgenze, il purgatorio, e i miracoli, non meno che la transustanzazione , il culto della Vergine, la dannazione dei fanciulli morti senza battesimo. San Domenico, per consiglio del Pontefice, recatosi nella Gallia Narbonese, suscitò contro essi una Crociata, concedendo quelle medesime indulgenze, che solevano darsi a coloro i quali passavano a combattere in Terra Santa.
Ora San Domenico, sovvenuto dal Conte Simone da Monforte, scorre i contadi di Tolosa, Albi, Carcassona ed incendia Beziers; finalmente, seguendo il suo cammino, cade in potere degli Albigesi, i quali gli domandano se tema la morte: «Io temere la morte!» rispondeva il Santo «io temere la morte per la fede, per la gloria di Cristo, e della Santa Chiesa romana? Non mi uccidete a un tratto, vi prego, ma a poco a poco mutilate ciascheduno dei miei membri, e mostrateli ai miei occhi; poi strappate anche questi, e lasciate così il mio corpo, in mille parti piagato, rotolarsi dentro il suo sangue, finchè giunga il punto della morte.» Gli Albigesi lo lasciarono in libertà.
Innocenzio non potè mai ottenere da Federigo, che decretasse la pena di morte contro questi, ed altri eretici, siccome Arnaldisti, Gazari etc. – Onorio III suo successore valse però ad ottenerla, come si rileva dalla costituzione Hac edictali conservata nel Codice Giustinianeo. A noi duole non potere più a lungo seguitare la storia degli Albigesi, chè il nostro soggetto ci preme; onde null’altro possiamo fare di meglio che rimandare il lettore all’opera che l’irlandese Mathurin con tanta forza d’immaginazione ha composto intorno le loro vicende.
Onorio III, conformandosi in tutto alla politica d’Innocenzio, esitava a concedere la corona Imperiale a Federigo; nondimeno costretto poneva per condizioni, che il Regno delle Sicilie al suo figliuolo Enrico cedesse, la Contea di Fondi alla Chiesa restituisse, egli a militare in Palestina trapassasse. Federigo prometteva tutto, perchè a promettere non iscapitava nulla; ma ricevuta la corona imperiale, se ne andò in Puglia: dove, vinti i Conti di Aquila, di Caserta, Tricarico, e Sanseverino, acquietò il Regno, vi promosse le arti e le lettere, instituì Università; e molte altre cose così per la pace, come per la guerra lodevoli, condusse a buon fine. Il Papa, che non voleva venire ad un’aperta rottura con Federigo, e d’altronde lo temeva vicino, si avvisò, per mandarlo in Palestina, di dargli in isposa Yole figlia di Giovanni di Brienna erede del Regno di Gerusalemme. Lo Imperatore, che poco tempo innanzi aveva perduta la prima moglie Gostanza di Arragona, tolse ben volentieri Yole, che fanciulla leggiadrissima era; ed apprestata una flotta s’incamminò col Langravio di Turingia alla conquista di Gerusalemme l’otto settembre 1227. – Qualunque però ne fosse la causa, di lì a pochi giorni vôlte le prue, tornasi in Calabria, prorogando la impresa all’anno venturo.
Era morto il prudente Onorio, ed in suo luogo sedeva Gregorio IX dei Conti di Signa, siccome Innocenzio III, il quale forte sdegnato del ritorno di Federigo, senza nè pure citarlo, lo scomunicò nel settembre di quell’anno medesimo 1227. Federigo per niente sbigottito appella da questa sentenza al Concilio, ordina continuarsi nei suoi Stati gli uffici divini, lascia al governo del Regno il suo suocero Giovanni di Brienna, e si reca a Tolemaide. Quinci mandava Legati al Papa, affinchè si placasse; questi rispose, instigando il Brienna a ribellargli il Regno. Federigo, fatta pace col Soldano, torna in Italia, vince il Brienna e il suo esercito, distinto col nome di chiavesignato da quello di Federigo, che si chiamava crocesignato. Il Papa è costretto a ricomunicarlo.
Le città lombarde erano già decadute da quelle virtù, che le avevano unite nella gloriosa Lega contro il Barbarossa. Cominciarono le contese cittadine tra nobili e popolo, aprendo così la via al primo ambizioso che volle dominarlo. Già fino d’ora molti cittadini reggevano la patria loro a modo tirannico, siccome i Signori da Romano, da Cammino, da Este, da Doara, e Pelavicino: in breve la stessa Milano vedremo cadere sotto il dominio dei Signori della Torre. Imprevidenti però del pericolo vicino, temevano il lontano, onde i deputati di Bologna, Piacenza, Milano, e di altre ragguardevoli città, si ragunarono nella chiesa di Santo Zenone di Mosio su quel di Mantova, e quivi stabilirono la seconda Lega Lombarda per quindici anni. Intanto Enrico, sollecitato, secondo che porge la fama, dal Papa, e dai Lombardi, si ribellava a suo padre. Come questa vicenda avesse fine vedemmo al Capitolo quinto. Ormai Federigo, non potendo più comportare il manifesto disprezzo che i Milanesi facevano della sua autorità, dichiarò loro la guerra. La minuta descrizione delle cose particolari di questa impresa vorrebbe altra estensione di quella propostami nel presente Capitolo: narrerò i fatti principali soltanto, e da prima la battaglia di Cortenuova, nella quale ebbero i Milanesi dolorosa sconfitta. Tornava nell’agosto 1237 Federigo di Lamagna, conducendo seco duemila cavalieri tedeschi: giunto che fu a Verona, occorse in diecimila Saraceni, ed aggiuntili al suo esercito entrò sul contado di Brescia. I Milanesi con la gente della Lega si posero subito in cammino, e andarono ad incontrarlo sull’Oglio. Bellissima era la situazione presa, per modo che Federigo, non volendo assaltarli con tanto suo manifesto svantaggio, s’ingegnò di trarneli fuori, valicando il fiume a Montecorvo, e spargendo la fama di andarsene a svernare a Cremona. Rimasero all’inganno gli avversarii, che stimando poterlo leggermente danneggiare per quella confusione che mena sempre seco la ritirata, si dettero ad inseguirlo. Pervenuti a Cortenuova, invece di fuggente, trovarono lo esercito imperiale schierato in ordine di battaglia: di tornare indietro non era più tempo; e’ fu mestieri combattere. Ma disordinati, siccome avviene a cui insegue troppo fidente della vittoria, e stanchi dal