La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi

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La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi

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sapere, che i nostri grandi avi ci hanno tramandato. Onore! Onore ai magnanimi, che vivono nelle visioni della immortalità! Il fuoco della scienza, come quello di Vesta, arde scarso, ma eterno, e conservato da mani pudiche.

      «Ordiniamo, che Corrado eletto Re dei Romani, erede del Regno di Gerusalemme, dilettissimo figliuolo nostro, ci succeda nell’Impero, ed in qualunque altro dominio in qualsivoglia modo acquistato, particolarmente nel Regno di Sicilia. A lui morto senza figli vogliamo succeda Enrico figliuolo nostro, ed a questo morto pure senza figli succeda Manfredi nostro figliuolo. Dimorando il mentovato Corrado in Lamagna, od in altro luogo fuori del Regno, Manfredi faccia le sue veci in Italia. e specialmente in Sicilia, dandogli pienissima potestà di fare tutti quei provvedimenti che potremmo far noi, come concedere terre, castelli, feudi, dignità, parentele ec. ec.. meno gli antichi demanii del Regno; ed abbiano Corrado ed Ennrico, o eredi loro, le cose che avrà fatte per rate e confermate. Item concediamo, e confermiamo al sopra detto Manfredi il Principato di Taranto, di Porto Rosito fino alla sorgente del fiume Brandano, non meno che le Contee di Montescaglioso, Tricarico e Gravina, le quali da Bari si estendono fino a Palinuro, e da Palinuro fino a Porto Rosito. Gli concediamo inoltre la Contea di Monte Sant’Angiolo con ogni titolo, onore, diritto, borghi, terre, castelli, villate, e pertinenze. In ogni altra possessione dalla Maestà Nostra concessagli nello Impero lo confermiamo, purchè di queste riconosca Corrado per suo sovrano signore ec.»

      Questa era la volontà dello Imperatore, come si rileva dalle sue tavole testamentarie riferite da alcuni diligenti Storici, ma tale non era quella di Papa Innocenzio. Abbiamo veduto come la politica dei suoi antecessori consistesse tutta nell’impedire che l’Imperatore di Lamagna avesse dominio in Italia, e poichè non potè attraversare, che per mezzo del matrimonio di Gostanza con Enrico la casa di Svevia ottenesse il Regno di Napoli, ogni pensiero della Corte Romana fu vôlto ad impedire che si consolidasse in mano dell’Imperatore. Innocenzio non aveva altro sentiero a seguire. Quel potente amico vicino che volendo ti distrugge, riesce più pericoloso del nemico che puoi combattere con incerta fortuna. Innocenzio come uomo avveduto, e delle cose del mondo intendentissimo, accese le cupidigie dei Baroni napoletani. Ognuno di questi, sperando farsi signore assoluto, con l’antica lusinga della libertà andava sollevando i popoli, e diceva doversi trucidare il tiranno, e purgare il Regno dai Barbari. Manfredi dal canto suo sollecitava i popoli a rimanersi fedeli, gli onori e le gioie della lealtà esponeva, i suoi nemici ribelli appellava. Sono i nomi di ribelle e di tiranno nelle rivolte di per sè stessi senza significato, e senza rappresentanza morale nella mente dei popoli, ed aspettano la loro spiegazione dall’esito delle battaglie. Allora vedendo gl’imprigionamenti, gli esilii, le teste tagliate e confitte su pei pali, per quell’antica fratellanza, che corre nei loro cervelli tra pena e delitto, senza cercare più oltre danno il torto a chi è vinto. Il nome di riprovazione rimane a colui che ha dovuto cedere, l’altro ha purificato la sua infamia nella vittoria… poi la vittoria muta, chè il chiodo alla ruota della Fortuna nessuno pose fin qui, nè mai porrà, e con la vittoria mutano i giudizii degli uomini. Vinse Manfredi, e fu giusto; i Baroni vinti, e però scellerati. Alla morte dello Imperatore il Regno da un lato all’altro si ribellò, e Manfredi in meno di un anno lo ricompose in pace, ed eccettuate le città di Napoli e di Capua, tutte le sottomise. Fu quest›eroe figlio naturale di Federigo, e di una Marchesa Lancia di Lombardia, ma come si ricava dal suo testamento, avanti di morire legittimato. Bellissimo di corpo, di biondi capelli, ed occhi azzurri, come tutti gli altri della famiglia di Svevia; era la sua persona maestosa, il portamento gentile; di costumi liberale e cortese: sortì dalla natura ingegno maraviglioso, conciossiachè egli sapesse poetare a modo dei Trovatori, suonare, e nessuno degli adornamenti cavallereschi ignorò: del pari che suo padre Federigo parlò speditamente diverse lingue, e fu intendente di cose naturali, come si rileva dai libri su la Caccia, che di lui ci rimangono: cupamente ambizioso, stimò ogni mezzo, purchè conducente al suo scopo, lodevole: capace di calcolare ogni delitto e commetterlo, e celarne il rimorso: simulatore e dissimulatore destrissimo, sprezzatore degli uomini e di Dio, nel mentre che con istrano contrasto si mostrò sempre umano, magnanimo, e perdonatore generoso. La sua anima fu grande, ma tenebrosa; nessuno uomo al mondo ha mai tanto somigliato a Lucifero, allorchè ribellando parte del cielo al suo Signore ne portò la fronte in sempiterno solcata dal fulmine divino.

      Corrado si apparecchiava a visitare il Regno di Sicilia, che il suo augusto genitore soleva chiamare prezioso retaggio: imbarcatosi a Porto Navone, alla estremità del Golfo Adriatico, su le flotte pisana e siciliana, giunse felicemente sul principiare dell’anno 1252 a Siponto in Capitanata. Gli occorse Manfredi con magnifica comitiva, e fattegli le dimostrazioni del più sviscerato amor fraterno gli narrò le imprese eseguite, i pericoli superati, e con diligenza gli espose le presenti condizioni del Regno. Corrado rispose, dovergli grazie infinite: lo pregò a volerlo sovvenire co’ suoi consigli, ed a non partirsi giammai dal suo fianco. Così in buona concordia andarono dapprima le cose. Si cominciava intanto ad imprendere la guerra. Corrado, aiutato da Manfredi e dai Saracini, occupava in breve Aquino, Suessa e San Germano; non dissimile da Federigo suo padre, rigidamente si conduceva co’ vinti. gli rifiniva con gravose imposizioni, e con atroci tormenti li trucidava. Manfredi poi mostrava compassionarli, spesso intercedeva per loro, più spesso li trafugava, tutti dei suoi danari sovveniva; già per lo innanzi que’ suoi modi cortesi toccarono i cuori dei Siciliani, nè poco contribuirono a sedarne i tumulti; ora poi, posti a contrasto con quelli di Corrado, tutti lo imploravano come loro protettore, e santissimo Principe lo dicevano, e che fosse divenuto il loro Re desideravano. Corrado, ch’era di natura sospettoso, s’ingelosì ben tosto di Manfredi. e cominciò a temerlo troppo potente, onde prese a spogliarlo dei feudi, limitarlo nei suoi attributi, e così in ogni modo umiliarlo e avvilirlo. Manfredi sopportava tutto con lieto volto, nè se ne mostrava punto crucciato; anzi in proporzione dei torti ricevuti pareva raddoppiare di ardore per sovvenirlo. Capua stretta di assedio cedeva adesso a Corrado, che levato subito il campo mosse contro di Napoli. Questa città tenne lungamente; alla fine, soverchiata da troppo maggior numero di forze nemiche, si arrese. Corrado vi esercitò atti di rabbia, atterrò le mura, condannò gran parte di cittadini alla morte, la Università instituita da Federigo rimosse e trasportò a Salerno: Manfredi era sempre lì a spargere balsamo su le ferite cagionate da Corrado, e a prodigare consolazione e sussidii: sembravano il genio del bene, e il genio del male, che si fossero uniti a percorrere la faccia della terra.

      Il grido degli offesi Napolitani giunse fino ad Innocenzio IV, che considerando se un potente esercito sì fosse presentato alle frontiere del Regno avrebbe potuto agevolmente sottometterlo, tirando partito da quegli umori, spedì il suo Segretario Maestro Alberto da Parma in Inghilterra per farne proposta a Riccardo Conte di Cornovaglia, fratello di Enrico III. Riccardo ricusò il partito, scusandosi col dire, lui essere fratello d’Isabella ultima moglie di Federigo, ma infatti perchè nudriva ambiziosi disegni sopra l’Impero. Enrico III allora sollecitò Innocenzio a concederlo al suo figlio Edmondo, e di breve rimase concluso il partito, quantunque, come vedremo in appresso, non fosse mandato mai ad esecuzione.

      Giungevano intanto novelle dello Impero a Corrado, per le quali sentendo come Guglielmo di Olanda si fosse ribellato, conobbe essergli di mestieri confermare con la propria presenza la fede vacillante dei Baroni tedeschi. Abbandonando la Sicilia temeva di Manfredi, molto e più temeva di Enrico, giovanotto di belle speranze, lasciato dal padre ricco d’infinito tesoro, preposto al governo delle Isole, al quale egli doveva cedere il Regno di Gerusalemme, o l’Arelatense. Troppi, come ognun vede, erano i vantaggi che resultavano dalla sua morte, perchè Corrado lo lasciasse vivere. Enrico chiamato a Melfi periva: Corrado finse sentirne immenso dolore, e Manfredi finse di crederlo.

      Ormai pronto a partirsi per Lamagna, Corrado la maggior parte dei Baroni aveva raccolto a Lavello col pretesto di magnifiche feste, ma in sostanza per ispiarne i sentimenti, e spengerli tutti alla occasione. Trapassarono le feste, e fu imbandito l’ultimo banchetto: sedeva Manfredi in faccia a Corrado, e con molte parole ora cortesi, ora amorose, lo lusingava; all’improvviso si levò in piedi, e vôltosi verso un donzello saracino gli disse: «Alì Haggì, pel Profeta che ha visitato, porgimi di quel buon vino col quale Federigo soleva propinare alla salute di sua casa.» Il Saracino gli porse un fiasco di argento, Manfredi n’empì una tazza (la sua

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