La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi

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La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi

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più alpestro giunsero sul fare della notte a vista di Atropalda, castello dei Capece.

* * *

      «Baiardo!» gridò Marino: che precorse Manfredi sotto il castello. Fu sentito un cigolío di chiavacci, un aprire d›imposte, un montare di balestra, e una voce tuonante, che domandò: «Chi viva?» – «Viva Svevia, e San Gennaro: cala il ponte, Baiardo; son Marino.»

      Fu calato il ponte; e quando Manfredi ebbe posto il piè su la soglia, i due fratelli Capece scesero da cavallo, gli si prostrarono alle staffe, e dissero: «Messere il Principe, siete in casa vostra.» – «Se la fortuna non mi corre sempre nemica, spero potervi dire le stesse parole a Napoli nel castello capuano.»

      Le mogli dei Capece con donnesca leggiadria fecero al profugo Manfredi tutte quelle accoglienze che seppero maggiori; egli volle che sedessero alla sua mensa insieme ai loro mariti, e qui dimenticando le passate e le presenti sventure si mostrò tanto gaio e scherzoso, che quelle gentildonne, vedendolo in séguito spessissimo volte a corte, affermarono, ch›ei non fu mai tanto giulio, quanto in quella notte di pericolo. Alla mattina, Manfredi, salutate le dame, ed ingrossata la scorta di alcuni cavalieri della gente dei Capece, si dipartiva. Giunse a Melfi, che gli chiuse le porte; Ascoli seguì l’esempio, ed uccise per giunta il Governatore, che gli si manifestava devoto. Un uomo meno magnanimo si sarebbe dato per vinto; Manfredi, più che mai fermo contro la fortuna, si volse a Venosa, che rispettosamente lo raccolse.

      Era Lucera dei Saracini in podestà del Marchese di Hochenberg, il quale vi aveva lasciato a governarla Marchiso con ordine di tenerne sempre chiuse le porte. Marchisio eseguiva i comandi del suo signore, ma non gli valse il consiglio.

      Manfredi, lasciata a Venosa la scorta, tolse seco i due fedeli Capece e il maestro di caccia di Federigo, e si dispose a partire per Lucera; scansò Ascoli e Foggia. La notte lo sopraggiunse su l’entrare di quella sterminata pianura, che anche oggigiorno chiamano Tavoliere della Puglia; il cielo minacciava burrasca, ma il Principe di Taranto non era uomo da arrestarsi per la paura di un cielo turbato: – si avanzavano; le tenebre aumentano, il vento cresce impetuoso; – di tanto in tanto grosse goccie di pioggia gli bagnano il volto. Allo improvviso cessò il vento; tutto fu un profondo silenzio: per quella solitudine nessuna altra cosa si ascoltava, meno l’alternare dei passi dei cavalli. – Venne un lampo, poi un tuono, e dietro uno scroscio terribile di grandine: il vento che aveva cessato, quasi mostrando di non volere essere il primo ad attaccare la battaglia con gli altri elementi, tornò ad imperversare pel cielo. I baleni si succedevano con tanta rapidità da sembrare un incendio continuato. Spesso i cavalli balzarono indietro spaventati; i cavalieri, comunque usi a vedere la morte, si facevano il segno di salute, e si raccomandavano a Dio, perocchè lo spettacolo della natura sconvolta spaurisca assai più dell’aspetto della morte. Qual fu in quell’ora l’anima di Manfredi? Se i suoi compagni avessero potuto fissarlo in volto, avrebbero conosciuto dalla penosa contrazione dei muscoli, dagli occhi smarriti, dal sembiante disfatto, che nel suo cuore passava una tempesta più fiera di quella che sovvertiva in quel punto e cielo e terra. Ma essi stavano troppo preoccupati per la propria vita, onde fare coteste osservazioni; e la voce di Manfredi non tremava, anzi ora gl’incoraggiva, ora con qualche bel motto gli rallegrava. Disse un antico filosofo, non so con quanta convenienza di senno, che l’uomo onesto in fondo della miseria è cosa degna degli Dei: io per me penso, che un grande scellerato, il quale senta tutto lo inferno del rimorso, e sollevi la fronte baldanzosa e serena, sia non il più bello, certo bensì il più maraviglioso spettacolo della umana natura. – Così camminarono una lunga via: si squarciò l’orizzonte rovesciando sopra la terra torrenti di fuoco; le case più lontane ne furono illuminate; Riccardo maestro di caccia esclamò: «Coraggio, coraggio, cavalieri, ecco qui presso il ricovero.»

      «Quale?» domandarono tutti.

      «Non avete veduto la casetta che vi sta dal manco lato a breve distanza? Venitemi dietro, chè ne conosco la via; la fece fabbricare per comodo della caccia la Maestà dello Imperator Federigo nostro signore.»

      «Riccardo!» urlò involontariamente Manfredi «per amore del tuo Dio, non mi condurre a quella casa.»

      «E dove volete passare la notte, messere il Principe? Che San Gennaro vi aiuti, sentite che grandine è questa? Venite, venite.»

      Manfredi senza aggiungere parola gli tenne dietro: allorchè fu per passare la porta della casa prese pel braccio Corrado Capece per evitare di cadere.

      «Principe, male v’incolse?»

      «Nulla, Corrado, ho posto il piede in fallo.» E si avanzò.

      Riccardo frugando così al buio rinvenne alcuni fasci di legna, li dispose sul focolare, trasse dalle tasche il focile, e suscitò un bel fuoco.

      «Questa è fiamma veramente reale,» disse sorridendo Manfredi.

      «Oh! ne abbiamo fatti di belli di questi fuochi, messere il Principe… quelli sì che erano tempi!… figuratevi, l’ultima volta ch’ebbi l’onore di servire la Maestà dello Imperatore vostro padre, lo vidi in questa medesima stanza… mi sembra proprio di averlo innanzi gli occhi… lì a canto a voi…»

      «E’ parvi da durare questo tempo?» interruppe Manfredi.

      «Messer sì,» rispondeva Riccardo. «Sicchè, com’io vi diceva, stava in questa stanza, e vi potrebbe essere anche adesso… e perchè no? Egli morì giovane, mi ricordo, giungeva appena a cinquantasei anni… e vivo io grazie al cielo, che ne ho sessanta, e sono un vassallo, poteva bene viver egli che ne aveva cinquantasei, ed era il più potente signore di tutta Cristianità; ma la fama mormorò allora che fosse avvelenato… Oh! quando poi c’entra il veleno, si muore anche dell’età del Re Corrado…»

      «Santa Vergine! questo è un fulmine,» disse Manfredi segnandosi.

      «Messer sì…» soggiunse Riccardo. «Raccontano molti, e l’ho inteso sovente dalla propria bocca di mio padre, buona memoria, che rammentando i morti dopo la mezza notte sogliono talvolta apparire… ma io non ho paura… io… E perchè dovrei averne?… per quanto mi venne dato, l’ho servito fedelmente sempre, in vita o in morte. Quantunque comprendessi benissimo, che la preghiera di un pover’uomo come sono io possa poco o nulla giovare alla grande anima di uno Imperatore, pure per quello che può valere le ho detto, e le dico la mia orazioncella. Insemina, se ora comparisse in mezzo di noi, io non avrei paura… no, non avrei paura…» e tutto timoroso si guardava d’intorno. «E voi, messere il Principe?»

      Manfredi non potendo più sopportare quelle parole. si fece alla porta, guardò il cielo, poi chiamò i compagni e disse: «Mi pare che si metta al buono.»

      «Certamente si mette al buono;» rispose Riccardo «tra mezz’ora non cade più pioggia… ma vedete come è mutato il vento!… come tirano di lungo que’ nuvoloni neri neri! – La tempesta va verso Napoli… Pazienza! là si trovano tanti buoni Santi, che ne avranno cura; ma qui non c’è prete che valga a esorcizzarla. Guardate in là, messere il Principe, come fa chiaro. Oh! ne abbiamo avute ben altre di queste nottate con l’augusta Serenità di vostro…»

      «E sarebbe bene, Riccardo, che voi andaste con un po’ di strame, se ne trovate, altrimenti col mio mantello, ad asciugare i cavalli.»

      «Parvi, messere il Principe? il vostro mantello del più bel verde cambraio, che io abbia visto al mondo! il mio fa più al caso di quelle povere bestie… eh! hanno fatto un bel fare… e poi il mio mantello è più asciutto del vostro, farò con questo.» E così dicendo Riccardo andò per quello che gli aveva comandato il suo signore.

      Manfredi facendosi presso ai Capece, che se ne stavano ristretti intorno al fuoco: «Prodi cavalieri, e dilettissimi amici miei,» disse loro «io vengo a togliervi fino il piccolo conforto di asciugarvi

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