La città del re lebbroso. Emilio Salgari
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу La città del re lebbroso - Emilio Salgari страница 20
Come abbiamo veduto, il Cambogiano aveva ottenuto per parte sua il suo scopo, vendicandosi del rifiuto del generale; e Kopom era salito di un altro gradino, sotto la potente protezione del puram, che stimava ben più sicura di quella del re di Cambogia, dal quale non aveva ottenuto, per l’eccidio degli elefanti, che una somma non troppo elevata, nessuno degli onori promessi…
Il briccone si trovava nascosto dietro l’angolo della palazzina da una buona mezz’ora, e cominciava già ad impazientirsi, quando vide la porta della phe di Lakon-tay aprirsi ed uscire l’europeo.
Il Cambogiano attese che avesse attraversato la via, che a quell’ora era deserta, poi, uscendo rapidamente dall’ombra, lo raggiunse, prima che avesse il tempo di salire i tre gradini della palazzina e di percuotere il gong.
Roberto, udendo quell’uomo accostarsi, si voltò bruscamente, con una mano entro la larga fascia, chiedendogli:
«Che cosa vuoi?»
«Sei tu il medico bianco che guarisce gli ammalati?» chiese Kopom, con voce gemente.
«Sì, sono io.»
«La mia donna sta per morire, signor uomo bianco, e mi hanno detto che tu solo puoi salvarla. Io sono un povero battelliere, ma se tu riesci a conservarmela in vita, ti fornirò di pesce tutto l’anno.»
Il dottore a quella strana promessa sorrise.
«Conserva il tuo pesce per la tua famiglia,» gli disse. «Dove abiti?»
«Presso il fiume.»
«Lontano?»
«Cinquecento passi.»
«Precedimi, quantunque sia un po’ tardi.»
«Grazie, signor uomo bianco,» disse il briccone, fingendosi profondamente commosso. «Sommona Kodom pregherà per te, uomo generoso.»
«Lascia in pace Budda e spicciati.»
Il Cambogiano invece di precederlo gli si mise al fianco allungando il passo.
Con un rapido sguardo si assicurò che i quattro Malesi avevano lasciato il muricciolo e che lo seguivano silenziosamente, tenendosi sotto la cupa ombra dei tamarindi e degli alberi di cocco che fiancheggiavano la via.
L’italiano, il quale di nulla sospettava, e aveva creduto alle parole di quell’uomo che aveva scambiato per un povero battelliere del Menam, lo seguiva, immerso nei suoi pensieri.
Il Cambogiano si dirigeva verso il fiume e precisamente verso la capanna abbandonata, pensando che in caso di bisogno avrebbe potuto far accorrere anche i battellieri della scialuppa. Stava per discendere la riva, quando finse di fare un passo falso, lasciandosi cadere al suolo.
Il dottore si curvò per aiutarlo a rialzarsi; ma ad un tratto si sentì stringere il collo da due mani nervose, mentre nell’oscurità echeggiava un fischio.
Il Cambogiano con una mossa fulminea l’aveva afferrato e lo teneva stretto, per lasciar tempo ai Malesi di accorrere.
«Che cosa fai, canaglia?» gridò l’italiano con voce strozzata.
«Accorrete: lo tengo, lo ten…»
Il Cambogiano non poté finire la frase.
Il dottore era robusto ed aveva una muscolatura d’acciaio. Con un pugno ben applicato, schiacciò il naso del ribaldo, poi, svincolatosi bruscamente, con una poderosa pedata lo mandò a ruzzolare fra i canneti del fiume.
«Prendi, birbante!» gridò.
Poi con un salto si slanciò sul margine della diga, per rimontare la via che costeggiava il fiume.
Solo allora s’accorse che il battelliere non era solo. I quattro Malesi stavano per precipitarglisi addosso, tenendo in pugno i larghi e terribili coltellacci Birmani.
«Ah… Volete assassinarmi!» gridò il dottore.
Cacciò le mani entro la fascia che portava sotto la giacca e le ritrasse stringendo in ognuna una pistola.
Due lampi balenarono, seguiti da due detonazioni e da due rantoli.
Due uomini caddero l’uno sull’altro, senza mandare un grido; gli altri, dopo una breve esitazione, si precipitarono all’impazzata giù per la riva, balzando nel fiume e scomparendo sott’acqua.
Il dottore, ancora sorpreso da quell’aggressione ingiustificabile, era rimasto sulla cima della discesa per vedere se i due uomini tornassero a galla, quando, nel volgere gli sguardi verso la capanna, scorse altre persone che salivano cautamente la riva.
Immaginandosi che fossero altri compagni del battelliere e trovandosi colle pistole scariche, stimò prudenza battere precipitosamente in ritirata.
Se aveva delle braccia solide, aveva anche delle gambe buone. In due salti raggiunse la via che costeggiava la riva e si slanciò verso la sua casa, che non era lontana più di cinque o seicento metri.
Già non distava che qualche centinaio di passi, quando vide due uomini muniti di lanterna di carta oliata corrergli incontro.
Si arrestò, indeciso sul da farsi, credendoli nuovi avversari, quando una voce a lui ormai ben nota gridò:
«Veniamo in vostro soccorso, dottore!»
Erano il generale e Feng, entrambi armati di fucile e di catane.
«Siete voi che avete fatto fuoco?» chiese Lakon-tay, con voce alterata.
«Sì, generale,» rispose Roberto.
«Contro chi?»
«Contro degli uomini che avevano tentato di assassinarmi, dopo avermi attirato verso il fiume.»
«Dalla veranda vi avevo veduto parlare con un uomo, poi allontanarvi, quindi ho udito due colpi di pistola.
Credendo che foste stato voi, sono accorso. Chi può avervi preparato un agguato? E poi, assalire un europeo!… Un simile caso non è avvenuto mai in Bangkok.»
«Non si dirà più così,» rispose Roberto, sorridendo. «Me la sono cavata bene e ho ucciso due dei miei aggressori.»
«Chi erano?»
«Mi parvero battellieri o pescatori.»
«Andiamo a vederli. Abbiamo due buone carabine e le catane e nessuno oserà affrontarci. Avete mai avuto questioni con qualche battelliere?»
«Mai, generale.»
«Che quei miserabili vi abbiano assalito per derubarvi?»
«Lo suppongo.»
«O che ci sia sotto la mano di qualcuno dei miei nemici?»
«A quale scopo?»
«Non so, forse per impedirvi di seguirmi.»
«Se