La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La città del re lebbroso - Emilio Salgari страница 15
«Vi ha notato,» disse il dottore.
«Sì, mi ha guardato,» rispose il generale.
«Non mi sembra che sia di buon umore.»
«Lo è di rado: non l’ho veduto sorridere che due o tre volte, in tanti anni che lo avvicino.»
«Ecco i talapoini che giungono: la pramana comincia. E dov’è l’elefante?»
«Si trova già entro la piramide,» rispose Lakon-tay.
«Che cosa ne faranno poi delle sue ceneri?»
«Le getteranno nel Menam, che è il nostro maggior fiume sacro. Le ossa che rimarranno si metteranno in un’urna d’oro, che verrà poi deposta nella pagoda di boromanivst, dove si conservano gli avanzi dei re del Siam e di tutti gli altri elefanti bianchi.»
Uno stuolo di talapoini e di talapoinesse, vestiti tutti di seta bianca, il colore usato nelle cerimonie funebri, s’avanzava verso la piramide, salmodiando massime morali nella lingua dei Bali, fiancheggiato da gruppi di suonatori che soffiavano disperatamente entro i pi, specie di chiarine dal suono assai aspro, percuotevano furiosamente degli enormi tapon dalla forma e della grossezza d’un barile, e sbatacchiavano i crab, certe specie di bastoni di legno sonoro, che servono d’accompagnamento alle voci.
Seguivano poi gruppi di ballerini e di ballerine, che avevano alle dita certi unghioni di rame giallo e portavano sul capo degli alti berretti conici ornati di pietre false; poi squadre di schiavi che reggevano dei canestri pieni di resine, di polvere di sandalo e di fiori; quindi dieci o dodici carri, scortati da suonatori di tong, quegli strani strumenti musicali fatti a forma di bottiglia, chiusi in fondo da una pelle che si batte col pugno.
Su tutti quei carri vi erano statue enormi di legno dorato, rappresentanti leoni, tigri, elefanti, mostri favolosi e serpenti colossali.
La processione fece due volte il giro dell’enorme piramide, gettando profumi, fiori e materie resinose, sempre urlando, salmodiando e suonando, poi un talapoino ad un cenno del re annodò ad un angolo della costruzione un largo nastro di seta bianca, legando l’altro capo ad un mucchio di libri sacri: era il mistico legame tra il defunto S’hen-mheng ed i libri di Sommona Kodom.
Quando il nastro fu teso, successe un profondo silenzio: talapoini, talapoinesse e suonatori non fiatavano più. Allora il re scese dal palco reale, tenendo in mano una fiaccola accesa, mentre alcuni soldati spargevano al suolo della polvere da sparo, formando una lunga striscia.
Phra-Bard, visibilmente commosso, diede fuoco alla polvere.
Una striscia di fuoco serpeggiò per la piazza, comunicandosi alle materie resinose che circondavano l’immensa pira.
Per alcuni istanti non si vide che una nuvola immensa di fumo nero avvolgere la piramide, poi fra quelle ondate di fumo guizzarono gigantesche lingue di fuoco, proiettando sulla folla dei bagliori sinistri.
L’immensa mole che racchiudeva il corpaccio del S’hen-mheng, formata quasi tutta di tronchi d’albero resinosi, bruciava con rapidità incredibile, lanciando in aria fasci di scintille.
Tutti i principi, le principesse e i grandi dignitari dello stato accorrevano da tutte le parti a gettare sul rogo una torcia, mentre i talapoini e le talapoinesse mandavano grida acutissime, e rombavano con un fracasso infernale i tapon e i tong.
I ballerini e le ballerine intanto intrecciavano danze, eseguendo il rabam, un ballo riservato per le cerimonie funebri.
La pira fiammeggiava ormai dalla base alla cima ed il fuoco si propagava alle quattro ali e alle quattro torri.
I tronchi scoppiettavano, poi cadevano al suolo con sinistri fragori, mentre si espandeva per l’aria un acre odore di carne bruciata: l’enorme animale rosolava entro quella immane fornace, tuonando come se nel suo corpaccio avessero messo dei petardi.
Le torri, meno elevate e più leggere, crollavano fragorosamente, lanciando in alto turbini di fumo e di scintille; le gallerie delle quattro ali si sfasciavano, ma la piramide resisteva ancora.
Le tenebre erano calate, eppure sulla piazza ci si vedeva meglio che se fosse mezzodì. Perché il cielo pareva tutto in fiamme.
Ad un tratto l’enorme edificio oscillò, come se una poderosa scossa di terremoto avesse sollevato il suolo, poi quelle migliaia e migliaia di tronchi fiammeggianti si sfasciarono e l’intera massa crollò con un fracasso spaventevole, formando un immenso braciere alto parecchi metri.
Il corpo del S’hen-mheng, sepolto sotto quell’ammasso di tronchi già carbonizzati, si inceneriva rapidamente.
«È finita,» disse il dottore. «Possiamo andarcene, generale.»
Lakon-tay, che era più commosso di quanto sembrasse, si era già alzato, quando un paggio del re lo accostò, sussurrandogli all’orecchio:
«Sua Maestà vi aspetta nel suo palazzo.»
«Il re mi chiama!» esclamò il generale. «Sono un uomo finito.»
«Voi non sapete ancora che cosa desidera,» disse il dottore, quantunque in fondo all’animo condividesse le angosce del disgraziato generale.
«Non sarà certo per mantenermi in carica o per annunciarmi la cattura di qualche altro elefante,» rispose Lakon-tay con voce triste. «Il meglio che mi possa toccare sarà l’esilio in qualche lontana provincia.»
L’europeo diventò pallido e il suo pensiero corse a Len-Pra, a quella deliziosa fanciulla che già tante volte aveva ammirato sulla veranda della phe e per la quale già da tempo nutriva, quasi senza saperlo, una profonda affezione.
«Ebbene,» diss’egli con voce risoluta dopo un breve silenzio, «vi seguirò anche nell’esilio. Guarire degli ammalati qui od altrove, per me fa lo stesso.»
«Mi seguirete nell’esilio?» chiese il generale, con stupore.
«Sì,» rispose l’italiano, «e voglio lavorare alla vostra riabilitazione. No, un prode a cui lo stato deve la salvezza della patria, non deve cadere sotto i colpi dei nemici.»
Lakon-tay, profondamente commosso, strinse la mano del bravo giovane.
«Ah! Questi europei!» mormorò. «Quanta nobiltà d’animo posseggono, mentre qui non vivono che l’intrigo e la vigliaccheria!»
Il rogo stava per estinguersi e il re si era ritirato colla sua corte, rientrando nella cinta dell’immenso palazzo reale. Fare attendere quel potente monarca era troppo pericoloso.
«Andiamo,» disse Lakon-tay, con voce risoluta. «Mi aspetterete davanti alla porta, è vero, dottore?»
«Non vi lascerò solo,» rispose l’italiano. «Ormai ho unito la mia sorte alla vostra.»
Scesero dalla loggia, che a poco a poco si era vuotata, e si diressero verso la porta d’occidente che s’apriva sulla vasta piazza e che era guardata da una compagnia d’arcieri della guardia reale, vestiti di seta rossa, con ampi calzoni alla turca e coi cappelli a forma di piramide.
Con grande sorpresa di Lakon-tay, le guardie gli presentarono le armi e fecero squillare i pi. Ciò era di buon augurio, poiché se la sua disgrazia