La città del re lebbroso. Emilio Salgari

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La città del re lebbroso - Emilio Salgari

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or sono.»

      «Ed ecco che un mese dopo il primo S’hen-mheng moriva,» disse l’europeo, che era diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»

      «Nessuna e poi, anche avendone qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un uomo così potente.»

      «È buddista?»

      «Io credo che sia un adoratore di Fo o di Confucio, come la maggior parte dei Cambogiani.»

      «Ecco una preziosa informazione,» disse l’europeo. «Un confuciano può ridersene di Sommona Kodom, a cui non crede. Deve però aver avuto dei complici.»

      «Certo, signore, fra i paggi, i servi od i mahut dei S’hen-mheng

      «Sono amico di alcuni grandi della corte,» disse l’europeo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di visitare l’elefante bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»

      «L’alba sta per spuntare e voi siete ormai fuori pericolo.»

      «Come potrò ricompensarvi per avermi conservato alla mia dolce Len?» chiese il generale con voce commossa.

      «Accettandomi come vostro alleato, per combattere i vostri misteriosi nemici,» rispose l’europeo. «Gli italiani amano la lotta e qui vi sarà ben da lottare, generale. Un valoroso come voi non deve cadere così sotto i colpi d’un avventuriero.

      Daremo battaglia, mio generale, e spero che vinceremo e che smaschereremo quell’uomo, se potremo provare che sia realmente colpevole.

      Ci rivedremo più tardi, dopo il mezzodì.»

      Capitolo V. Il puram del re

      L’ultimo dei S’hen-mheng era appena spirato e Lakon-tay era appena uscito per recare al re la triste notizia, quando un uomo, approfittando della commozione generale che regnava nella sala degli elefanti, usciva inosservato per una porticina che metteva dietro le mura della cinta reale.

      Quell’uomo era uno dei servi incaricati di vegliare l’ultimo S’hen-mheng, e che nel momento in cui Lakon-tay manifestava al mahut favorito i suoi sospetti, si era trovato così vicino a loro da non perdere una sola parola.

      Camminava rapidamente lungo la cinta, guardandosi di frequente alle spalle, come se temesse di essere seguito da qualcuno, e pareva in preda ad un profondo orgasmo.

      I suoi occhi obliqui, che tradivano in lui un Cambogiano, scrutavano i viali, e la sua pelle giallastra diventava livida al minimo rumore.

      Giunto presso una delle tante porte della cinta, trasse dalla sua larga fascia una chiave e l’aperse con precauzione.

      Al di fuori un giovane dalla pelle scurissima pareva lo attendesse, tenendo per la briglia uno di quei piccoli e ardenti cavalli del paese, bardati all’orientale, con staffe corte e larghe e gualdrappa rossa e infioccata, trapunta in oro.

      «È in casa il tuo padrone?» chiese il servo con precipitazione.

      «Sì, e ti attende,» rispose il giovane.

      Con un salto il servo fu in sella e raccolse le briglie, dicendo:

      «Lascia andare».

      Il cavallo, sentendosi libero, partì di carriera, sollevando un nembo di polvere.

      L’uomo seguì per qualche chilometro la cinta del palazzo reale, poi si slanciò fra le tortuose e fangose vie della vecchia città, atterrando tre o quattro passanti che non avevano avuto il tempo di evitarlo, finché sbucò sul gran viale costeggiante il Menam, fiancheggiato da bellissime phe colle verande illuminate da enormi lanterne cinesi, di carta oliata variopinta o coi vetri di talco.

      Il Cambogiano lo lasciò galoppare per alcune centinaia di metri, poi con una violenta strappata lo arrestò dinanzi ad una phe grandiosa, d’architettura cinese, coi tetti arcuati ed irti di punte e di comignoletti scintillanti d’oro.

      Alcuni servi, sfarzosamente vestiti di seta gialla a fiorami di vari colori, stavano chiacchierando e masticando del betel sulla gradinata marmorea della palazzina.

      «Il vostro padrone?» chiese il Cambogiano, balzando a terra con un’agilità da cavallerizzo perfetto.

      «È nel suo gabinetto,» rispose un valletto.

      «Solo?»

      «Solo: devo annunziarti?»

      «Non occorre: ho troppa premura.»

      Entrò, salendo una gradinata di legno di tek, coperta da tappeti di feltro variopinti e colle ringhiere di metallo dorato e, senza nemmeno bussare, aperse una porta di ebano con laminette d’argento.

      In un elegante salotto, tappezzato tutto in seta cinese ricamata in rosso, un uomo stava sopra un immenso cuscino, fumando una pipa formata da una conchiglia, dal cui camino si sprigionavano nuvolette di fumo oleoso e punto profumato.

      Era un uomo piuttosto obeso, interamente calvo, fra i quarantacinque ed i cinquant’anni, dalla fronte bassa, gli zigomi assai sporgenti, gli occhi obliqui come quelli dei Cinesi e la pelle giallastra.

      In tutta la sua persona c’era un non so che di falso e di ripugnante, malgrado la ricchezza delle sue vesti di seta azzurra cosparse di rubini e di perle, le collane che dovevano costare dei tesori, ed il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra.

      Vedendo entrare il servo dell’elefante bianco, si levò di colpo, esclamando:

      «Tu, Kopom!…»

      «Io, signore.»

      «Il S’hen-mheng

      «Morto or ora.»

      Un sorriso di gioia feroce comparve sulle labbra dell’uomo grasso.

      «Sono finalmente vendicato!» esclamò con voce giuliva. «Ah! Lakon-tay ha osato respingere la mano di Mien-Ming, il possente puram del re! Mi conosceva troppo male quell’imbecille. Credeva di essere invulnerabile, ed è caduto come un colosso d’argilla.

      Non si offende impunemente un uomo par mio, e Len-Pra un giorno, dovessi travolgere nella rovina tutto il Siam, sarà mia.

      Folle! Sfidare la mia collera! Non basta il coraggio: ed ecco la sua fama compromessa, la sua popolarità perduta, il suo onore fatto a pezzi, mentre avrebbe potuto diventare potente quanto me.

      L’offesa che m’ha fatto la pagherà cara e Len-Pra piangerà lacrime di sangue!

      Come era, quando è uscito per recarsi dal re?»

      «Irriconoscibile, mio signore,» rispose il Cambogiano.

      «Che scoppio di collera da parte del re!» disse Mien-Ming, con un brutto sorriso. «Me la immagino la scena. Il mio veleno non doveva fallire nemmeno contro l’ultimo dei S’hen-mheng

      «Un veleno terribile, signore.»

      «Ho chiuso io stesso, entro un bambù del mio giardino, il più alto ed il più grosso, il baffo d’una tigre, ed ho spremuto colle mie dita il liquido del verme che era nato. Non mi sono però accontentato di questo, e vi

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