La città del re lebbroso. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La città del re lebbroso - Emilio Salgari страница 12
A quelle parole il viso del Cambogiano si rannuvolò, e il suo turbamento non sfuggì allo sguardo acuto del puram del re.
«Mi sembri inquieto,» gli disse il gran giustiziere, con voce aspra. «Che cos’hai?»
«Lakon-tay non mi parve convinto che la morte dei S’hen-mheng fosse naturale,» rispose Kopom, con voce esitante.
«Che cosa ti ha detto?» chiese il puram, aggrottando la fronte.
«A me, nulla, ma ha manifestato dei sospetti parlando col mahut dell’elefante bianco.»
«Sospetta di me?»
«Oh no, signore, del re di Birmania.»
Mien-Ming scoppiò in una risata.
«Che imbecille! Tutti i prodi sono bambini! Il re di Birmania! E a quale scopo avrebbe fatto avvelenare i S’hen-mheng del re del Siam?»
«Per gelosia.»
«Ciò è cosa che non ci riguarda, vero, Kopom? Sono fedeli i tuoi complici?»
«Sono tutti Cambogiani, e non credono alle trasmigrazioni di Sommona Kodom.»
Il puram del re s’avvicinò ad un pesante mobile in legno di tek, una specie di forziere tutto intagliato e laminato in oro, aperse uno sportello e ne estrasse un sacchetto di pelle, che pareva pesantissimo.
Levò quattro verghe d’oro e le porse al Cambogiano, i cui sguardi erano diventati ardenti, al veder scintillare nelle mani del puram il fulvo metallo.
«Ecco qui mille tical che dividerai coi tuoi complici,» disse. «A più tardi il resto, giacché la vostra impresa non è ancora terminata. Un giorno tu sarai mandarino.»
«Non vi sono più S’hen-mheng da uccidere, mio signore!» disse Kopom.
«Ma vi è Len-Pra da rapire,» rispose Mien-Ming. «Credi tu che io non voglia raccogliere i frutti della mia vendetta?»
«Dovremo uccidere il generale?»
«No, almeno per ora. Mi basta allontanarlo.»
«Che cosa devo fare?»
«Recarti alla pagoda di vot-baromanivet e avvertire Kodom di recarsi qui all’istante. Prenderai una lettiga con otto servi.
Faremo fare della strada a quel bravo talapoino, giacché ambisce di diventare il capo della comunità!
Fa’ presto: quell’uomo mi preme.»
Kopom mi mise nella cintura le verghe d’oro, fece al briccone un profondo inchino e uscì correndo.
Non erano trascorsi venti minuti, quando Mien-Ming, che si era ricoricato sul largo cuscino di seta, riaccendendo la sua pipa carica d’oppio e sorseggiando una tazza di tè bollente, udì il gong sospeso alla porta risuonare fragorosamente.
«Deve essere quel bravo talapoino,» mormorò. «Che gambe ha quel Kopom!»
Si alzò posando la pipa su una mensola d’argento e si diresse verso la porta, mormorando fra sé:
«Riceviamolo degnamente, quantunque lo ritenga un briccone mio pari.»
Un uomo magrissimo, col viso incartapecorito e rugoso, entrò, facendo un profondo inchino e dicendo con una voce fessa, punto piacevole:
«Che Sommona Kodom guardi il puram del re.»
Quell’uomo aveva il capo scoperto e privo di capelli, i piedi nudi; il suo corpo era avvolto in tre pezzi di seta gialla, il colore riservato al re: il primo gli avviluppava il braccio sinistro e metà del corpo fino alla cintura, lasciando nudo il braccio destro: il secondo dalla cintura gli scendeva fino ai polpacci delle gambe: il terzo invece gli avvolgeva le reni come una larga fascia e sosteneva una lunga corona formata di cento e otto globetti, di cui si servono tutti i talapoini per recitare le loro preghiere in lingua bali.
Oltre ad aver il capo rasato, aveva così anche la faccia e perfino le sopracciglia.
I talapoini sono monaci buddisti e, soprattutto nel Siam, formano delle corporazioni potentissime e assai rispettate non solo dal popolo e dai grandi, ma anche dallo stesso re: posseggono un numero infinito di val, ossia di conventi, che racchiudono dei tesori favolosi.
Ve ne sono di parecchi ordini, e tutti devono vivere di carità e mendicare ogni giorno alle porte dei ricchi e anche dei poveri; e non tornano mai ai loro monasteri a mani vuote, anzi sempre carichi come muli, giacché nessuno oserebbe rifiutare a così santi uomini una moneta o del riso od altro.
Ricevono poi offerte dai grandi e dallo stesso re, il quale anzi tutti i giorni accoglie i monaci della pagoda di Mong-kut, che formano fra i talapoini una specie di aristocrazia, e che devono venire nutriti a spese della corte.
Il talapoino che era entrato nel salotto di Mien-Ming non era un monaco qualunque, anzi per i suoi meriti e per le sue virtù era stato innalzato alla carica di sancrato, titolo che corrisponderebbe alla dignità di vescovo, e ne portava le insegne dorate sul talapa che teneva in mano, una specie di ventaglio di seta gialla, che quei religiosi portano sempre con sé, onde coprirsi il viso ogni volta che incontrano delle donne.
«Che cosa desideri da me, puram?» chiese il monaco, dopo essersi seduto su un seggiolone di bambù, offertogli premurosamente da Mien-Ming.
«Sai, sancrato, che il S’hen-mheng è morto?»
«L’ho appreso or ora e non puoi immaginarti, puram, il dolore immenso che mi ha cagionato quella notizia.»
«Ed a me del pari,» disse il puram sospirando, «e prevedo che gravi disgrazie colpiranno il nostro povero paese, se non si troverà qualche altro S’hen-mheng che incarni l’anima di Sommona Kodom.»
«Possibile che non ne esista più alcuno nelle folte foreste del settentrione? Che il nostro paese sia stato maledetto?»
«Tutte le spedizioni organizzate dal re sono tornate a mani vuote, e temo anch’io che qualche possente stregone o qualche genio malvagio abbia gettato la jettatura sul regno.»
«Qualche naghar?»
«O una di quelle terribili garude di cui parlano le nostre storie e i nostri libri sacri; a meno che…»
«Parla, puram,» disse il talapoino.
«La notte di ieri io l’ho trascorsa pregando dinanzi alla statua di Sommona Kodom, nella pagoda di vat-scetuphon, affinché il dio m’indicasse il luogo dove potessi trovare un altro S’hen-mheng e salvare così il regno dai disastri che non tarderanno a colpirlo.»
«E te lo ha indicato?» chiese il talapoino, con ansietà.
«Tornando a casa verso l’alba, mi sono sentito cogliere da un sonno irresistibile e poco dopo m’è apparso in sogno Sommona Kodom.»
«Il dio?»
«Sì.»
«E ti ha parlato?»
«Mi