La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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style="font-size:15px;">      Otto malesi colle carabine spianate, preceduti da un dayako che portava una torcia, erano andati incontro al parlamentario, il quale si era avanzato solo, facendo ondeggiare una bandiera bianca.

      Era un uomo di statura alta, magro come tutti i bramini ed i fakiri, dalla tinta piuttosto fosca ed i lineamenti energici, resi piú duri da una lunga e folta barba nera.

      Era tutto vestito di bianco. Solamente alle reni portava una larga fascia di seta gialla, abbastanza in cattive condizioni.

      I malesi lo afferrarono e lo spinsero, assai brutalmente, verso Yanez, il quale era illuminato da un’altra torcia tenuta da un dayako armato d’un kampilang luccicante.

      – Gran sahib, – disse – mi riconosci? Io spero che tu non avrai dimenticato il mio nome.

      – Tu sei Kiltar, l’uomo che io ho graziato – rispose il Maharajah. – Ti ho riconosciuto perfettamente.

      «È la seconda volta che ti presenti a me come parlamentario. Che cosa vuoi? È Sindhia che ti manda?»

      – Sí, gran sahib – rispose il bramino, fissando cogli occhi il luccicante kampilang del dayako che reggeva la torcia.

      – Che cosa vuole quell’uomo?

      – Che tu ti arrenda, gran sahib.

      – Ah!… – fece Yanez, prendendo a Sandokan una sigaretta. – Quell’uomo è pazzo.

      – Lo credo anch’io, gran sahib – rispose il bramino. – A Calcutta non lo hanno curato bene.

      – Spiegati meglio, Kiltar.

      – Ti consiglio, gran sahib, di non cedere. Dopo che tu hai ricevuto quei terribili uomini i quali hanno fatto una vera strage fra i rajaputi che un giorno erano al tuo servizio, il rajah è spaventato.

      – Buono a sapersi – disse Sandokan, il quale, seduto su una mitragliatrice, guardava con viva curiosità il parlamentario.

      – Tu mi sei debitore della vita – disse Yanez. – Te lo ricordi?

      – Sempre, gran sahib. Si dice che i morti stanno benissimo nel nirvana che è tanto largo da accogliere tutte le anime degli indú, ma io sono contento di non esservi andato.

      – Ti credo – rispose Yanez ridendo. – Almeno quando siamo vivi si può sapere quello che succede nel mondo.

      – Non so che cosa sia il mondo – rispose il bramino. – Io non conosco che l’India.

      – Insomma, che cosa vuoi? Noi non abbiamo tempo da perdere.

      – Potremo riprendere questo discorso domani o fra una settimana, gran sahib, se cosí ti aggrada.

      – Ritornerai qui?

      – No, io non tornerò piú, perché se portassi a Sindhia la notizia che tutti voi vi rifiutate di arrendervi, mi farebbe schiacciare la testa da uno dei suoi elefanti.

      – Suoi?… Miei!… – urlò Yanez.

      – È vero. I rajaputi te li hanno rubati tutti.

      – Vile gentaglia!… – esclamò Sandokan. – Risparmierò dei paria, risparmierò dei bramini, dei fakiri, ma non quei mercenari. Quanti cadranno nelle nostre mani li fucileremo, e le nostre grosse carabine di mare non sbaglieranno.

      – Ne ha perduti nessuno? – chiese Yanez con un impeto di rabbia.

      – Tre o quattro nell’assalto di Gauhati – rispose il bramino.

      – Quanti uomini ha?

      – Forse quindicimila, perché la colonna, che è corsa in tuo aiuto, ha fatto dei veri massacri con certe armi che non conoscevamo prima. Era un fuoco infernale che si succedeva senza tregua e rovesciava gli assalitori a centinaia e centinaia.

      – Ha paura anche Sindhia di quelle armi?

      – Trema quando ode quel sinistro crepitío.

      – Anche questo è buono a sapersi – disse Sandokan, il quale aveva accesa la sua pipa, incrostata di zaffiri orientali e col bocchino d’oro. – Quest’uomo è veramente prezioso.

      Yanez continuava a fumare la sua sigaretta, colla fronte aggrottata, accarezzandosi la barba. Pareva che pensasse intensamente.

      – Tu non vuoi ritornare? – chiese finalmente.

      – No, gran sahib, questa volta mi ucciderebbe.

      – Eppure tu dovrai rivedere Sindhia.

      Il bramino divenne livido ed i suoi occhi si allargarono di spavento.

      – Tu vuoi la mia morte, gran sahib, – disse. – È vero che mi hai donata la vita.

      – Tu non tornerai al campo di Sindhia solo – disse Yanez. – Ti darò un compagno e sarà un uomo bianco.

      – Un uomo bianco!… – esclamò il bramino.

      Sandokan si era alzato ed aveva vuotata la pipa.

      – Che cosa mediti tu, fratellino! – chiese a Yanez, il quale conservava sempre il suo sangue freddo meraviglioso.

      – Tu mi hai portato un uomo bianco che si propone di distruggere tutte le bande di Sindhia in pochi giorni.

      «Ebbene, io lo metterò alla prova.»

      – Chi? il signor Wan Horn?

      – Sí, e ci farà provare la potenza delle sue bottiglie.

      – E ci credi tu?

      – Io ho piú fiducia nella mia carabina – rispose il portoghese. – Pure a certi scienziati si deve credere.

      – Se lo dici tu è affare finito. E vuoi mandarlo da Sindhia?

      – Certamente.

      – Ti ha detto che voleva andarci?

      – Sí, con un paio di bottiglie piene di bacilli di colera.

      – Che cosa sono?

      – Sono delle piccole bestie che tu non conosci.

      – E se Sindhia lo fucilasse?

      – Un uomo bianco? Oh, non l’oserebbe di certo!

      – Che cosa dici, tu, bramino? – chiese Sandokan a Kiltar.

      – Che accompagnato da un uomo bianco tornerei nel campo di Sindhia.

      – Che cosa decidi allora, Yanez? – chiese la Tigre della Malesia.

      – Di mettere alla prova i famosi microbi del tuo amico olandese. Credi che accetterà di recarsi al campo di Sindhia come parlamentario?

      – È un uomo che ha del coraggio e perciò non si rifiuterà. E che cosa vuoi che vada a dire a quel rajah?

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