Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

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Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari

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abbandonate sul ventre, producevano un effetto strano che impressionava profondamente Mirinri, non abituato altro che a vedere le acque verdeggianti o fangose del Nilo, le sabbie del deserto e le altissime palme ravvivate dall’umidità del fiume gigante.

      Ounis, che sembrava non s’interessasse né delle statue, né dei colonnati, né delle sculture, continuò ad avanzarsi verso il fondo di quell’immensa, interminabile sala, scavata nel vivo masso da chissà quante migliaia di operai, e si arrestò dinanzi a due statue di grandezza quasi naturale, che alla luce della lampada mandavano dei bagliori acciecanti. Una rappresentava un uomo, con indosso il ricco costume dei Faraoni ed il simbolo di vita e di morte collocato sulla fronte; l’altra una donna bellissima, con grandi occhi neri ed il viso dipinto in giallo; ma con un po’ di rossetto sulle gote, che le dava un aspetto singolarissimo ed insieme una speciale attrattiva.

      Entrambi portavano delle pitture di soggetto religioso, ripetizione ortodossa del gran rito etiopico, dove si vede l’anima del defunto fare la sua visita e le sue offerte a tutte le divinità, di cui essa deve implorare la protezione.

      Invece di chiuderli entro la bara, quell’antichissimo monarca e sua moglie, dopo essere stati imbalsamati, li avevano messi in piedi, sorreggendoli con un’asta di bronzo passata attraverso le strette fascie che li coprivano dalle anche ai piedi.

      Sia l’uno che l’altra, onde si conservassero meglio, erano stati coperti da un leggero strato di vetro, colato probabilmente sul luogo, un vetro traslucido, d’una purezza straordinaria, che scintillava vivamente sotto la luce proiettata dalla piccola lampada.

      «Chi sono costoro?» chiese Mirinri, che li guardava con vivo interesse.

      «Qobhou, l’ultimo re della prima dinastia e sua moglie,» rispose Ounis. «Guarda: su queste due tavolette di pietra nera sta scritto il loro nome.»

      «Ed è per farmi vedere queste due mummie che mi hai condotto qui?»

      «Aspetta, giovane impaziente. La nostra esplorazione non è ancora finita. A che cosa potrebbero servire questi morti? Non certo a darti mezzi per conquistare il trono. Seguimi ancora.»

      S’inoltrò in quell’immensa sala, che pareva non avesse più fine, passando fra due file di sarcofaghi di pietra, i cui rilievi esterni riproducevano esattamente le forme delle persone che vi stavano dentro. Alcuni erano dorati, altri invece argentati e raffiguravano re e regine.

      I primi avevano intorno al capo un disco rosso e portavano sotto il mento una barba intrecciata; le altre avevano un’acconciatura a bendoni, con dipinte sopra delle penne d’avvoltoio e la testa coronata da grosse treccie di capelli adorni con ametiste, crisoliti e smeraldi.

      Dopo alcuni minuti, Ounis s’arrestò dinanzi ad una sfinge mostruosa, lunga una ventina di metri e alta per lo meno quattro, che aveva sui fianchi delle iscrizioni rassomiglianti a segni geometrici.

      «Qui dentro è racchiuso il tesoro di Qobhou,» disse il sacerdote. «Vuoi vederlo?»

      «Mostramelo,» rispose Mirinri.

      Ounis si guardò intorno e vista una pesante mazza di bronzo appoggiata ad una colonna, l’alzò e percosse la sfinge sul muso.

      La testa girò subito su se stessa, poi cadde innanzi rimanendo sospesa mediante due grosse cerniere.

      Un’apertura circolare, formata dal collo dell’enorme statua stava dinanzi ai due egiziani.

      «Guarda lì dentro,» disse Ounis, avanzando la lampada.

      Il giovane s’avvicinò, poi arretrò, mandando un grido di meraviglia.

      «Quanto oro!» esclamò.

      «Si dice che vi siano lì dentro dodici milioni di talenti()» disse Ounis, «ma non è tutto. Le zampe sono piene di smeraldi e di altre pietre preziose, dalle quali, se tu ne avrai bisogno, potrai ricavare molti altri milioni! Credi tu con queste ricchezze di poter armare un poderoso esercito?»

      «Sì,» disse Mirinri. «Ma, come mio padre ha potuto sapere che in questo sepolcreto si trovava nascosto un tesoro così favoloso?»

      «Da un antichissimo papiro, da lui scoperto nella biblioteca dei primi Faraoni.»

      «E non confidò a nessuno il segreto?»

      «A me solo.»

      «E le hai serbate per me queste ricchezze?»

      «Sì, perché a te solo appartenevano. Appena noi saremo partiti vi sarà chi s’incaricherà di trasportare una parte di questo tesoro a Menfi.»

      «E chi, se nessuno ne conosce l’esistenza?»

      «Degli amici devoti, rimasti fedeli a tuo padre ed al suo successore. Domani saranno informati che la profezia si è avverata e che tu sei pronto a conquistare il trono e punire l’infame usurpatore.»

      «Dunque qualcuno viene allora qui.»

      «Sì, e mi sono ben guardato di fartelo vedere. D’altronde non veniva che di notte, quando tu dormivi e ripartiva allo spuntare del giorno. Ora giura su Toth, il dio ibis, che tu t’impegni di liberare la patria dall’usurpatore.»

      «Le prove che io sia realmente un Faraone tu non me le hai ancora date,» disse Mirinri.

      «È vero: torniamo nella caverna e partiamo subito. È molto tardi e la statua di Memnone non suona che allo spuntare del sole.»

      Rifecero in silenzio il cammino percorso, ripassarono per la galleria dei gatti e uscirono, strisciando attraverso la sfinge che occupava l’estremità della caverna.

      Ounis prese un’anfora di terracotta ed empì due vasi di vetro grossolano d’una specie di birra molto dolce, che secondo la tradizione, Osiride l’aveva donata ai mortali nel medesimo tempo del vino di palma ed invitò il giovane a bere, dicendo:

      «Che l’impuro demonio della morte tocchi chi mancherà al giuramento.»

      Poi prese in un canto due corte spade di bronzo, molto larghe e molto pesanti e ne diede una a Mirinri.

      «Partiamo,» disse. «La notte è a metà cammino.»

      CAPITOLO TERZO. Il sangue dei Faraoni

      Chiusa l’entrata della caverna con una lastra di pietra affinché durante la loro assenza qualche animale feroce non ne prendesse possesso, essendo in quelle lontane epoche molto popolato l’Egitto di leoni e di jene, il sacerdote ed il giovane si erano messi in marcia, tenendosi l’uno presso l’altro e volgendo le spalle al Nilo.

      Il deserto, che più tardi gli Egiziani dovevano, con pene infinite, rendere fertile, stava dinanzi a loro, stendendosi verso levante. Veramente non era proprio un deserto, simile a quello libico od al Sahara, assolutamente arido e privo di vegetazione; si poteva chiamare una immensa pianura incolta, che dalle rive del Nilo si spingeva fino alle rive del mar Rosso.

      Infatti qua e là si scorgevano dei gruppi di palme dum, chiamate alberi del pan pepato e che acquistano rapidamente uno sviluppo straordinario, anche sui terreni sterili, e qualche palma deleb dal fusto rigonfio nel mezzo e che è amante piuttosto della solitudine, non formando mai delle selve.

      Degli sciacalli urlavano in lontananza e fuggivano, rapidi come saette, all’accostarsi dei due uomini, mentre delle jene sghignazzavano in mezzo alle dune sabbiose, senza osare mostrarsi, non godendo nemmeno a quei tempi

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