Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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in faccia al nemico; cotesto vessillo poi di qua o di là, che sventoli tu avrai sconfitta o vittoria; però che solo dalla Democrazia puoi ottenere i volontari, che fuggendo prima a Gemmappe portarono poi le aquile imperiali per tutta la terra ferma di Europa. – Con chi vorrà o potrà collegarsi il Napoleonide? E’ vi ha chi dice con la Italia, e con la Russia, e sembra strano che la guerra mossa dagli strazi della Polonia andasse a finire con la lega della Russia; ma i tempi e l’uomo ci hanno avvezzi a bene altri contrasti, e te ne persuaderai solo, che tu confronti la impresa d’Italia con quella del Messico. Comecchè dunque siffatta lega non s’impugni, pure ne esecriamo il presagio nè la crediamo per nulla; avvertiamo ad altro. Lega con l’Austria non sembra possibile, imperciocchè la blandizie insidiosa del Messico rifiutata, palesa il suo animo alieno dalla Francia del pari che il Congresso non accolto dalla Inghilterra lo dimostra avverso; e veramente riesce duro a credersi, che l’Austria voglia scendere in campo per affrancare la Polonia di cui parte ella abbranca dentro ai suoi artigli; nè a lei talentano davvero le guerre, che mirano al riscatto dei popoli dalla servitù; lo stesso dicasi della Prussia su la quale molto ascendente esercita la Inghilterra; nè vediamo quale sarebbe il compenso della impresa zarosa: forse la promessa all’una ovvero all’altra potenza della Polonia riscossa di mano alla Russia; ma chi compra pelle di Orso prima, che sia preso? E poi qui occorre conquista doppia: prima vincere la Russia, poi la Polonia. O vorrà il Napoleonide mettersi allo sbaraglio con solo la Italia, e forse con la Turchia? Quando Napoleone I si avventò contro la Russia, eccetto la Inghilterra, traeva seco alleata tutta la Germania, che allo improvviso gli si voltò nemica; sarebbe prudente che ci si avventurasse Napoleone III con la Germania avversa? Se lo facesse, la Italia dovrebbe, o potrebbe seguitarlo?

      La Italia non può seguitarlo; imperciocchè la Italia e la Francia portino le pene, quella di non avere preso, questa di averle contrastato Roma. Roma tolta in tempo di mezzo importava per noi stato se non perfettamente, almeno quanto basta ordinato: guerra civile repressa; massima parte di malcontento senza ragione di sorgere, e di durare; erario non florido, ma nè anco agli ultimi tratti; esercito intero, e non guasto da battaglie come vuote di gloria così piene di molto pericolo, e di ferocia, Roma per noi importa la trasformazione di ventidue milioni di stracci ammucchiati, dentro la bottega del rigattiere, in un popolo nobilissimo e potentissimo di ventidue, e più milioni di anime.

      La Inghilterra abbisogna in terra ferma di uno stato forte sopra il quale appoggiarsi, non già per offendere, che non le giova, bensì per difendersi, cosa a cui molto ella bada; e fin qui ella si tenne l’Austria, nè le doleva (fosse genio o costume di antica domestichezza), nel quale concetto mi conferma il ricordo delle parole del Russell quando confortava gl’Italiani a riporre ogni loro fidanza nell’Austria ridivenuta mite: ma poichè la Inghilterra conobbe l’Austria dannata ad insanabile decadenza, ella, per quanto ci è dato giudicare, non era aliena, anzi si prestava volonterosa alla composizione del regno italiano, come quello che interponendosi tra la Francia, e la Inghilterra le avrebbe mantenute in pace. Ora finchè la Italia rimanga satellite della Francia la Inghilterra, sembra a noi, che sia condotta ad appoggiarsi su la Prussia, ovvero sopra l’Austria, o sopra ambedue. Se sia provvidenziale o funesto non sapremmo dire, ma certo egli è che tra Francia e Inghilterra vive uno spirito, che le sospinge perpetuo una contro l’altra, e dove la Italia per virtù propria, e per benefizio di fortuna potesse essere assunta alla dignità di araldo fra loro oltre ad acquistare per sè novella gloria, e più desiderabile delle passate assai, forse aprirebbe il varco ad ordine di cose, che fin qui è stato desiderio di anime innocenti o fantasia di poeti. La Italia poi più che altri ci apparisce capace a tanto ufficio, imperciocchè da lei ab antiquo emani aura di civiltà, ed è usa dare alle genti religione, riti, e nozioni di diritti, le quali cose tanto più volentieri si pigliano da lei quanto ella sa meglio vestire il buono con le amabili forme del bello. Veramente l’appetito cieco, massime da principio, poteva ribellarsi da siffatto arbitrato, ed allora la Italia accostandosi colà dove la inchinava la giustizia, avrebbe eziandio con la minaccia della guerra prevenuto la guerra.

      La Italia sembra a me ridotta a tale, che per sè nulla possa, e se mai segue la fortuna di Francia lo farà come il grano messo sotto la mola; vi rimarrà macinata; il perdere di lei è rovina, il vincere servitù: tuttavia messo da parte la volontà, ma donde cava ella la potenza per sostenere una politica propria, ed anco per comparire utile aiutatrice della politica altrui? – La Italia manca di armi sufficienti alla impresa: la setta empia, che fa cadavere tutto quello, che tocca, adulando sostiene possederne anco troppe: e mentisce: ma che monta per lei? Se la Patria avesse a dare il tracollo, le sue gambe sono già use ad inginocchiarsi davanti al nemico invasore; use le mani a picchiarsi il petto; e la bocca usa a recitare il confiteor d’infamia. Mentisce, imperciocchè l’esercito non sommi bene a trecentomila uomini; cento e più mila ne sciupano tra la Sicilia, e Napoli; diffalcate gl’infermi, i presidii, gli addetti alle amministrazioni; avvertite, che tutti ad un tratto non si possono arrisicare; quelli, che rimangono sopra una carta, e ditemi poi quanti entreranno sul campo? Che se vi attentaste scemare i soldati nelle provincie meridionali, e forse anco altrove con Roma arrotatrice di masnadieri, il Borbone arrovellato per la mandra rapita, le trame dei sacerdoti iniqui, le ire degli spodestati, gl’interessi inciprigniti, l’agonia di ricattarsi, e ahimè! la inerzia altresì, o il corruccio degli uomini liberali, per me dubito, che correremmo presentissimo pericolo che avvenisse a noi come ad Uguccione della Faggiuola, il quale mentre esce di Lucca per ricuperare Pisa arrivato a mezzo cammino perde anco Lucca. Su i soldati volontari non parmi ci si possa fare capitale, e ciò per due ragioni; la prima, che il Governo non consentirebbe chiamarli, la seconda, ch’essi non ci vorrebbero andare. Quanto al Governo una volta, che con pertinacia stupenda, e spesa enorme li licenziò non sembra, che senza biasimo potrebbe radunarli da capo, e poi non ci ha di questi pericoli considerando la perseveranza del ministro della guerra a sbrattare l’esercito di ogni labe garibaldesca; per ciò che spetta ai volontari, sicuro occorrono uomini della natura dello insetto, che non sembra pago dove prima non si sia arso intorno al lume, ma non crederei che queste voglie si partecipassero dai garibaldini.

      E quanto ai volontari in brevi accenti mi giovi ripetere quello, che apertamente già ne dissi altrove, avendo avuto a sperimentarli io. Importa distinguere tra volontari che non pigliano la ferma dagli altri che la pigliano; e poi tra quelli che si assoggettano a regolare disciplina, e gli altri che ci repugnano; per ultimo fra quelli che si danno e gli altri che ricevono gli ufficiali. Chi non piglia ferma, e procede senza legge, e si sceglie il capo non mica per obbedirlo bensì per istrascinarselo dietro tra i cattivi è pessimo. Ricordai altrove come Gasparo di Coligny grande ammiraglio di Francia, costretto ad accettare nelle guerre di religione chi veniva veniva ebbe più volte a dire, che aria tolto a reggere piuttosto una legione di diavoli, che una compagnia di volontari; ed avverti, che i volontari del Coligny spettavano la più parte alla nobiltà campagnuola, mentre i più dei volontari odierni uscivano dalla popolazione delle città. La elezione dei capitani messa in balìa dei soldati se dannosa sempre io per me non saprei, ma nuoce certo negli esordii, però che allora prevalgano gl’imbroglioni, mentre dopo combattute parecchie battaglie potrebbe darsi, che la virtù prevalesse. Faceva mestieri pur troppo a non pochi fra i volontari la provvista quotidiana come di pane, e di carne così di cappotti, e di scarpe; le armi se invendute nabbissate; nè questo è tutto: forse in verun corpo come tra i volontari si trovano estremi, imperciocchè vi accorrano giovani i quali per ordinario possiedono facoltà di scansare la leva, ed uomini che dell’anima loro non sanno proprio, che farsi; nè mancano eziandio coloro che tu non patiresti al tuo fianco, eccetto sul campo di battaglia. E bada bene, che non sarebbe giusto, nè arguto respingerli, dacchè essendo mossi da animo buono possono rigenerarsi nel battesimo del sangue, e se da cattivo ci è il caso, che per via onorata scemino alla Patria gli umori malsani che la travagliano. Per la quale cosa riesce difficile maneggiarli prima, e dopo la guerra, imperciocchè adoperando rigidezza sovente meritata dai secondi, offendi i primi, mentre se ti comporti benigno rendendo a questi i degni premi, promuovi con pericolo, e non senza scapito della tua reputazione gli altri. Nè qui le difficoltà cessano; anzi appena furono tocche da me; tuttavia pon mente a questo, che se l’arte di governare i popoli, in ispecie nei tempi grossi, fosse pari a quella d’impagliare i fiaschi gli uomini di stato si troverieno ad ogni svolta di canto; e strano medico ti parrebbe colui, che sgomento o imperito a guarire i mali desse allo

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