Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Dalla prima tassa il Ministro faceva capitale cavarne un cinquanta milioni, e tanti ne distribuì sopra le provincie italiane, assegnando a ciascheduna la sua quota: la quale misura era desunta da quattro fondamenti, i quali furono chiariti inetti a partorire giudizio buono, onde i censori ne proponevano altri, i quali a posta loro erano ripresi come fallaci: stando a quel modo le cose pareva razionale si rigettassero tutti, e su norme più idonee si stabilisse il giudizio; ma questo ai Ministri del regno italico sarebbe sembrato troppo grave scandalo, però tennero fermi i fondamenti loro, accettarono i proposti, e composto così un guazzabuglio di spropositi, stimarono ne uscirebbe spillato l’archetipo perfetto; di vero, anco Dio o non cavò fuori dal caos la luce? Nè i Ministri sè estimano niente meno di Dii, e del non avere saputo o voluto torre Roma al Papa si consolano di un’altro furto, che gli hanno fatto; hanno rubato a quel meschino di Pio IX la sua infallibilità.
Ed è anco più strano questo altro, che il Ministro avendo prima chiesto da simile balzello cinquanta milioni, poi per istralcio si accomadasse a trenta; su di che mettiamo da parte la sconvenienza di vedere il Governo, che adopera col Parlamento a mo’ di creditore di fallito; ci sembrerebbe onesto, che il Ministro domandasse leale quello, che a punto gli abbisogna o giù di lì; ma venti milioni meno su cinquanta dimostrano che o il Ministro non seppe quanto gli occorreva, o chiese pensatamente troppo per procurarsi stoppa a tappare buchi inopinati, e questo, è metodo che meritamente si biasima, imperciocchè palesi incapacità, o malafede nel Ministro, il quale chiese più che gli bisognava, e insipiente prodigalità nei Deputati, che glielo concedevano.
Adesso poi sento, che dal complesso delle nuove tasse il Ministero spera cavare somme inferiori a quella, che egli si augurava prima raccogliere dall›unica sopra la rendita mobile; e qui confesso, che mi si annebbia lo intelletto; e tanto danaro si raffida riscotere a patto, che fruttino dal primo di gennaio 1864; che se per quel dì non fossero leste non fa nulla, perchè si darebbe loro virtù retroattiva, come dicono i Forensi. In virtù di quale dottrina le leggi su la gabella delle derrate possono retrotrarsi, il Ministro saprà; a noi non riesce levarci a così alto volo; e nè anco per le altre si potrà, non mica per la ragione, che simile principio equivarrebbe ad una lanciata nel costato del diritto; la maggioranza del Parlamento italiano usa saltare a piè pari bene altri ostacoli, che questi non sono, bensì per la confusione, la fatica, e il rammarichio che persuaderebbero la carne non valere il giunco: ma il Ministro imperterrito s’incoccia, e dice avere fede che ciò possa farsi, e se non potrà farsi subito si farà più tardi; inoltre ha fede che fruttino quanto presagiva e più; dove questa fede avesse a mancare egli trasporterà la sua fede ad altre fonti, e in altri cespiti, la quale cosa significa che riuscita indarno la corda ti darà la ruota, e, se non bastano, l’eculeo, l’assillo, e il fuoco alla pianta dei piedi. Come poi possano sperimentarsi leggi finanziarie fino a strappare la corda, lasciarle poi, tentarne delle nuove senza capovolgere lo stato per me e per altri sono tali abissi d’ingegno, che al solo affacciarmici mi gira il cervello.
Rispetto alle gabelle sopra i consumi cresciute, e alle altre imposte, uomini intendenti, e amici del Ministero non mancarono ammonirlo: «mala via tieni; dazio aumentato risponde a consumo diminuito. Già ne hai esempio in Patria: fuori osserva: la Inghilterra, la quale tre volte infedele al principio ormai levato alla dignità di assioma nella scienza ha voluto aggravare la tassa del caffè, del tè, e degli spiriti, e tre vide percossa terribilmente questa rendita della finanza; nella sola Irlanda scapitò l’erario centodiciassette milioni, e seicentocinquantamila franchi; cresciuto il dazio anco sul tabacco, nella sola Irlanda resultò un meno di Libbre 4,070,000, sgabellate.»
Il Ministro di sè glorioso a ciò non bada bambinante in quel suo riso di San Luigi Gonzaga. Anco gli amici, come gli avversari, gli aggiungono: «pensa, o uomo a cui la somma potestà della Italia avrebbe dovuto cascare sul capo come il tegolo su quello di Pirro, pensa che le nuove tasse sono torchi stringenti le pietre dove non incontrino il correspettivo della ricchezza pubblica, nè questa può essere nata così di punto in bianco. Tu operi gravemente quello, che il Senatore Gianni uccellando consigliava al Granduca Pietro Leopoldo scorrucciato perchè la gabella delle porte fruttava meno del presagio: – ne apra delle altre Altezza, e le gabelle raddoppieranno.» Non basta; quei dessi amici, ed emuli altresì continuano a dirgli: «avverti, per Dio! che la Italia ti sta nelle mani pari a vaso di alabastro ad un fanciullo; se mai ti cascasse in terra per colpa tua si ridurrà in minuzzoli. Mira, i popoli scontenti hanno dato sempre di fuori per angustia: i Napolitani di Masaniello pel dazio su le frutta, gli Americani di Washington per la gabella della carta bollata, e del tè, i Corsi del Paoli pei seini, e pel mezzo baiocco del mendicante di Bozio; causa non mediocre della rivoluzione siciliana del 1860 fu appunto la tassa del registro; e tu pensi applicando di un tratto quattro tasse le quali non lasciano illesa parte del corpo sociale, che egli non si dolga? Senti, o non riscoterai niente o poco, o metterai la salute dello stato a repentaglio.» Il Ministro inebriato di numeri si canta un ditirambo finanziario, e dacchè tacciava altrui di fatuo non dubita, che noi lo stimeremo da ora in poi uomo sodo. Bene sta che la legge su lo aumento del 10 per cento su i trasporti su le ferrovie deva levarsi, perchè la è vecchia, che quanto meno pregio pretendi di una cosa e più ne spacci: per la medesima cagione il Ministro pensa a ridurre in termini comportabili la legge sul bollo, e sul registro: e per la medesima ragione il Ministro s’intora a crescere il dazio su le derrate!
Dopo le tasse, a rattoppare lo sdrucio tirerà fuori centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro, ma questi Buoni rispondono a rendite scontate per adoperarne il prodotto in occorrenze straordinarie; dove le rendite non si trovino, i Buoni equivalgono a quel modo di cura, che i Cerusici chiamano autoplastica, il quale consiste a reciderti per esempio una fetta di natiche per rifarti il naso tagliato. Al Ministro non fanno specie i 150 milioni di Buoni del Tesoro, anzi confessa crescerli fino a 300; ma e’ sono ninnoli; e quanto al pagarli torneranno i Narbonesi gente dabbene a consolazione del Ministro nostro, i quali prestavano il danaro in questo mondo per riaverlo nell’altro.
Ci hanno i Beni demaniali, che si arebbero ad alienare per un centottanta e più milioni se vuolsi conseguire il bilancio tra la entrata, e la uscita del 1864, ma chi se ne intende afferma gli antichi beni demaniali giungere appena ai centodieci milioni dai quali fa mestieri defalcarne dieci pel Conte Bastogi, il quale si disciplina, come un’anacoreta nella Tebaide, con le strade ferrate per la salvezza d’Italia cara a lui quanto la pupilla degli occhi suoi e più; e poi bisogna sbatterne anco altri dieci, che il Governo dimette ai popoli meridionali affinchè se ne costruiscano strade, dunque una novantina di milioni. Che se vi fosse errore, fuori le stime, e vedremo. Le stime verranno, non ci è furia; furia ci è nel votare i bilanci; all’altro penseremo a tutto agio. Oltre questi beni demaniali affermano avanzarci i possedimenti della cassa ecclesiastica: ottimamente, ma quali e quanti sono eglino? Secondo che tempo farà e’ sommeranno a duagio infino a treagio, ed hacci di quelli del popol nostro, che li tengono fino a quattragio. Una voce credibile ci assicura l’amministrazione della cassa ecclesiastica in iscompiglio, e veramente da siffatta universale epidemia non sapremmo in qual modo potesse andarne immune l’amministrazione della cassa ecclesiastica; e come seguenza di questo stroppio non saldaronsi i conti ai creditori di quella, al contrario appaiono arretrati fino al 1860; e chi ha da avere si gratti; e ciò potrebbe capacitare taluni non noi, sperti che tutti i nodi, gira e rigira giungono al pettine. Ma volendo dare un taglio sul più o sul meno come reputeremo possibile vendere, durante l’anno 1864, i vostri centoventiquattro, o come altri pensa che ne farebbe di bisogno, duecento milioni di beni? In arroto ai centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro che occorre (oltre i 150, che già ci sono) buttare sul mercato, e con lo sconto della moneta all’8, al 9, e non si prevede a quanto per cento; – imperciocchè le cause della carestia del danaro non sembra sieno per cessare adesso, là dove sieno vere quelle, che allegano. Altri con molto senno notò, che avendo ad alienare per sopperire ai bisogni del 1863 cinquanta milioni di beni demaniali il Ministro e la Commissione