Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio
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“La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla obbedienza. E l’Almirante concesse un perdono generale, a patto che il Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa d’alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per l’isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due utias, che son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli uomini bianchi; ed egli ne meritava l’amore. Ma quante anime nere, tra quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz scaturiti d’inferno!„
Capitolo IV.
L’epistolario di Cicerone
– Chi dorme si svegli; – gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi fogli, poichè aveva finito il capitolo.
– Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese; – disse frate Alessandro.
– Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una volontà in loro presenza; – aggiunse il cerimonioso don Garcìa.
– Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre; – disse a lui di rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa Juana.
– Avete tutti i voti, capitano; – conchiuse Giovanni Passano.
– Non tutti; – riprese il Fiesco. – Vedo che Ovando e Bovadilla sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che n’avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l’altro che un guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose: come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un’altra mandata per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13 agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant’uomo ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le false proteste d’amicizia dell’Ovando; mentre a costui doveva scusarsi Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell’essersi allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll’anima in soprassalto, per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare, vi ricordate? Cristoforo Colombo non l’ebbe mai peggio in sua vita. Ed anche si può dire che l’Atlantico serbasse i suoi furori solamente per lui, non lasciandogli, salvo nell’approdo a Guanahani, un giorno intiero di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand’uomo, epico e tragico ad un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull’orma, i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d’Ojeda, Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti di ciò, se pure non ho detto già troppo; – conchiuse il capitano Fiesco, prudentemente ammainando la vela. – Volevo dirvi che da San Domingo a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.
– Lo darete alle stampe, speriamo; – disse il Passano.
– Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi; – ribattè prontamente l’autore. – Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.
– Che c’è? – disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.
– Leggi; – rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.
Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:
– Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti. —
Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:
“Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.
“Genue. Die V Martii A. D. 1506.
Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.
– Andrai? – diss’ella. – Gian Aloise ti prega.
– Andare è presto detto; – rispose Bartolomeo Fiesco. – Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; – rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro; – io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche