Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio
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– Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.
– Ed io vorrei risalirci, con Fior d’oro tra le braccia, e non ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino s’è messo in mente di toccare il cuore a Fior d’oro. Fa l’occhio pio, lui, ch’è una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li mette a raffronto colle rime amorose dell’Alighieri. Una sera, che ci fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de’ Conti da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto biondino! Quantunque, a farlo a posta, s’è imbattuto in una che i biondi non li vuol neanche per prossimo.
– O allora, scusate… – si provò a dire il Passano.
– O allora, caro mio, m’annoia egualmente; – rispose il capitano Fiesco. – Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.
– La contessa se n’è avveduta?
– E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare: Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior d’oro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo morire. Quanti pretendenti, mio Dio! – esclamò il capitano Fiesco, sospirando. – Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso che m’hanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, alta mente repostum, come direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci penso… In questa lettera dell’eccelso Gian Aloise non ci sarebbe la zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo; dovunque c’è un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo “intendio„ secondo l’uso della giornata. Ma io me ne intendo più di te, Filippino bello; quando il tuo diavolo nasceva, il mio andava già ritto alla panca. E per la croce di Dio… Oh, smettiamo; ecco madonna che torna. —
Infatti, sull’uscio dond’era sparita un’ora prima, riappariva Fior d’oro.
– Avete finito di far conti? – diss’ella.
– E da un pezzo; – rispose Giovanni Passano.
– Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar l’appetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro. —
Polidamante, che era comparso allora nel vano dell’uscio, corse ad eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e il vassoio.
– Dategli da bere, Juana; – disse il conte Fiesco alla moglie. – Ma in verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha incontrate in viaggio, da San Martino d’Albaro al ponte della Maddalena? E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che sete.
– È anche pronta la cena; – rispose Fior d’oro; – ed egli non avrà da penar molto. Genero, – soggiunse ella, accostando il calice a quello del Passano, – siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina. —
Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù, dopo averle portate, e conosciute molto noiose.
– Ed ora, – diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo vin di Cipro, – come la prenderà Fior d’oro, quando saprà che si vuol Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta pena. —
Capitolo III.
I commentarii di Cesare
La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.
Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne “in tavola„ l’eccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, ch’erano poi la gloria e l’onore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili d’Italia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non c’era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli d’Europa s’erano avvezzati in que’ tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l’attenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.
– Parliamo di cose allegre; – disse ad un certo punto il Passano. – Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?
– Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai…
– Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.
– Tu parli come un libro stampato; – disse Bartolomeo Fiesco. – Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei…
– Li avete letti, i miei; letti ed approvati; – interruppe il Passano. – Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina; – soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava; – diteglielo voi, che ha da leggere.
– Mio figlio mi fa piacere, se legge; – rispose madonna Bianchinetta. – Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.
– E che bel viaggiare! – aggiunse il Passano. – Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.
– Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne; – sentenziò gravemente