Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio
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– Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà! – ripigliò don Garcìa, come per darsi sulla voce. – Non dimentichiamo che l’ha tenuta a battesimo la madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.
– Già, – disse ridendo il Passano, – quantunque sia bruna. Tien più di Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!
– O perchè non l’avete condotta con voi, amico Passano?
– Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore… —
Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.
In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando, alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca. Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l’imagine, il simbolo, il genio della Gioiosa Guardia, ove del resto era nato. Se gli altri ci avevano pochi fastidii, egli non ne aveva nessuno. Tutto di primo impeto, correva sempre, quando c’era da muoversi; quando poi doveva star fermo, si addormentava. Non faceva mai niente con misura; e forse per ciò era molto caro al padrone.
– Che c’è? – chiese don Garcìa.
– Presto, le acque; – gridò quell’altro, senza fermarsi a rispondere in tono. – Dove sono le acque?
– Nei fiumi; – disse il Passano; – e neanche ne han tutti.
– Ah, siete voi, messer Giovanni? Bene arrivato! Dicevo le acque acconce, le acque cedrate, i siroppi per la signora. —
I famigli, che non avevano bisogno di tutte quelle spiegazioni, avevano già levato da una credenza il vassoio con le bocce di cristallo, e si preparavano a seguire con quello il messaggero Polidamante.
– Quando si dice nascer vestiti! – esclamò don Garcìa, volgendosi al Passano. – I padroni hanno anticipata l’ora di uscire in giardino. Potete salire dietro a Polidamante, e presentarvi, e far le vostre ambasciate, senza interrompere i commentarii di Cesare.
– I commentarii… Che dite voi, don Garcìa?
– Eh, sì, i commentarii di Cesare, come li chiama frate Alessandro.
– Sta bene, avevo inteso; – riprese il Passano. – Domandavo che diavolo è.
– Una storia, amico, una storia di laggiù, mi capite? Il capitano ci ha fatto l’onore di chiamarci nella caminata, per cinque sere alla fila, e ce ne ha letti già cinque capitoli. In quello scritto racconta tutto quello che s’è fatto alle Indie.
– Ah, bene! capisco, ora. Ci avrà molto da raccontare, perchè molto si è fatto. E parla di voi?
– No, non ci siamo ancora, a quel punto; – rispose don Garcìa, rannicchiandosi. – Penso, del resto, che quando saremo a quel punto, egli mi dovrà passare sotto silenzio. Del che non mi lagnerò, – soggiunse egli umilmente; – che anzi, dovrò sapergliene grado. Beati gli uomini di cui non avrà da occuparsi la storia.
– Bravo! siete filosofo?
– Alle mie ore, amico Passano. —
L’amico Passano strinse la destra di quell’altro Seneca; e vuotato il suo calice fino all’ultima goccia, che non era d’aceto, si avviò verso la scala.
– Va, bello mio, va, che non la conti giusta; – borbottò tra i denti il bravo don Garcìa, uscendo alla sua volta di là. – Questa visita di poche ore, a spron battuto, mi sa di chiamata a Genova lontano un miglio. C’è la mano di messer Filippino, qui sotto; scommetterei. Quello là non vuol dare nè lasciar pace a nessuno. —
Il giardino di Gioiosa Guardia, anzi i giardini, perchè erano quattro, bisognava andarli a cercare in alto, come gli orti pensili di Semiramide. Si stendevano essi sui bastioni della rocca, per tutta la lunghezza delle cortine, fiancheggiati e conterminati dalle torri, che, per conseguenza logica quanto architettonica, erano appunto quattro, senza contare il battifredo, gran torre più alta, dalla parte dell’ingresso, colla campana al sommo e con l’orologio nel mezzo. Forte arnese per guerre medievali, la Gioiosa Guardia non poteva più dirsi tale in un tempo che le artiglierie mobili e di grande gittata potevano batterla da parecchie eminenze circostanti. Ma essa non s’aspettava di queste noie, e il suo padrone, amico della pace, ne lasciava il carico ad altri luoghi fortificati della sua parentela, da Montobbio a Pontremoli. In uno di quei casi di necessità, che gli amici della pace come Bartolomeo Fieschi si dovessero ricordare d’essere stati uomini di guerra, la Gioiosa Guardia poteva essere ancora un bell’inciampo a soldatesche raccogliticce, non esperte o impazienti d’assedii; e il suo signore, poi, avrebbe amato sempre meglio far impeto in aperta campagna; che infine non era neanche troppo aperta, e i suoi duecento uomini, ben comandati, potevano valere per mille. Frattanto, sui pensieri di guerra avevano il sopravvento le arti della pace, e prima fra tutte l’arte dei giardini.
Madonna Bianchinetta, la santa madre del capitano Fiesco, ne aveva preso cura da giovane; ma poi, cresciuta negli anni, se n’era via via disamorata, piacendole assai più di passar le sue ore nella cappella del castello, dedicata a san Colombano; un gran santo, quello, e quasi di casa, che era morto non troppo lontano di là, nel monastero di Bobbio, e che dava il nome, del resto, ad una terra vicina. N’era venuto nei giardini del castello un gran guaio per le varie famiglie dei fiori; i quali, si sa, per prosperare domandano amore, intristiscono nell’abbandono, e muoiono anzichè darsene pace. Per contro erano cresciuti gli alberi, gran solitarii, anche quando si ritrovino in molti, che degli uomini non si dànno un pensiero al mondo, e vorrebbero anzi che gli uomini non si dèssero tanto pensiero di loro, per tagliarli, segarli, riquadrarli, piallarli a molti usi volgari, o farne legna da ardere. E insieme con gli alberi erano venute su liberamente le rose, belle salvaticacce che bastano molto a sè stesse. Diradare quegli alberi, sfrondandoli un pochino qua e là, ravviar quelle rose, nettandole d’ogni seccume e potandole, era stata la prima cura dei nuovi arrivati; quanto ai fiori più delicati, poco c’era voluto a trarne da tutti i dintorni, a farne allignare nelle vecchie aiuole risarchiate, e lungo i viali rifatti.
Per quei viali passeggiava la coppia felice; Fior d’oro col braccio sinistro girato intorno alla vita di Damiano; Damiano col braccio destro girato intorno al collo di Fior d’oro. Erano atti, per avventura, di soverchia libertà; ma non veduti per allora se non dagli uccellini saltellanti e chioccolanti sugli alberi. Ed essi, finalmente, come quegli alberi per tanti anni avevano fatto, non si davano pensiero di nessuno. Se n’andavano a passi lenti, così mollemente abbracciati, chiacchierando a mezza voce, bisbigliando quasi, com’è l’uso degli innamorati a buono, che non han nulla da dirsi di serio, nè sopra tutto di nuovo, ma che nelle cose più naturali e più comuni debbono metter sempre un po’ di mistero.
Un rumor di passi sulla ghiaia del viale fece voltar la testa a Damiano. Una sbirciata bastò al felice mortale, perchè egli spiccasse il braccio dalla dolce postura che s’era scelta con tanto buon gusto, e prendendo per mano la contessa Juana muovesse incontro al nuovo venuto.
– Quello, o ch’io sogno, è il vostro genero; – gridò egli con ostentazione di allegrezza, più fatta per consolar l’ospite, che per esprimere il vero sentimento dell’animo. – Capite, Fior d’oro? – incalzò, rivolto alla contessa, mentre stendeva pure la mano al suo antico aiutante. – Vostro