Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio
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– Spaziate come un’aquila, cugino! – esclamò Gian Aloise.
– E sarò un nibbio, poi; – rispose il capitano Fiesco. – Ma vedo, se permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato di più in compagnia d’un uomo grande, l’unico grande che mi offrano le storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre vanità, quando vanno più alte. Il mio grand’uomo, col suo ingegno e colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell’altro, con la sua forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.
– Povero a voi, se foste vissuto a’ suoi tempi! neanche un paladino avreste voluto diventarci?
– Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo, avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d’Arno per meta, sia pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l’utilità, non ne vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia, niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del crescite et multiplicamini. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra mill’anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno, ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un po’ del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.
– Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri; – notò Gian Aloise imbizzito.
– E faran bene, vedete? – ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco. – I vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire, avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera, nell’opera stupenda, indimenticabile, eterna, d’un uomo nuovo, d’un marinaio, d’un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete, oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m’era più a grado, e il cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la certezza d’una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l’onore e la sicurezza dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal posto mio non mancherei all’appello. Ma questo per difesa, e sentendo la voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come l’ultimo degl’imbecilli. Facciamo l’obbligo nostro, cediamo alle necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei vincoli cari ch’egli stesso s’è imposti. Non mi date ragione?
– Siete un bel matto; – disse Gian Aloise, ridendo.
La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb’egli potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l’uomo che potesse andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto com’era, l’eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile, egli avrebbe perduta, non che l’impresa, la fama.
Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando di parlar d’altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo; i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l’eredità di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l’ultimo dei Gian Luigi, e il più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po’ offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone d’un uomo nuovo, d’un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo. Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte avevano contratto parentado con essi, e da trecent’anni si erano illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.
Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d’oro, lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei, certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti all’eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da quell’alzata d’ingegno del giovane innamorato!
Il capitano Fiesco aveva preveduto l’effetto del suo rifiuto sull’animo di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.
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