Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio

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quello che a messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice: «Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea; «Diss’io: – Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che ’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi», quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error che m’avete soluto», – qui poco di sopra.

      «E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui stava», in quell’arca.

      «Dissemi: – Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».

      Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’ discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia, e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador di Roma.

      Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra, vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case, come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare alcuna sua ragione alla Chiesa.

      Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’ quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni, ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse; ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo», percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.

      «E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza, voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo rammarichío disse: – Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini. – Nella qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E degli altri mi taccio» – quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri contare.

      «Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui, seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’ l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).

      «Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí andando, Mi disse: – Perché se’ tu si smarrito»? – cioè sbigottito; «Ed io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.

      – «La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te, – mi comandò quel saggio, – Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice, «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede», cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita il viaggio», – cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.

      «Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce, «Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.

      Questo canto non ha allegoria alcuna.

      CANTO DECIMOPRIMO

      «In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il quale è di sopra detto che, lasciando il

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