Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio

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paiono persone oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione; ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco, esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’ morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili a riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sé il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor intrinseci sentimenti, molto piú sozzi e piú orribili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri. E quinci estimo, percioché ne’ sepolcri, a’ quali li lor corpi simiglianti furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori trassono; che l’ autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false e riprovate opinioni, sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo, ostinatamente servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.

      Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?

      Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di vedere e di sapere d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando, sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.

      Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli altri bestiali si puniscono?

      E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono, bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a ciò, adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli eretici.

      CANTO DECIMO

      «Ora sen va per un segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente in questo modo, che, avendo l’autore nella fine del canto superiore discritta la qualitá del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli è tormentato; nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne dice il suo procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse; ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza quivi: – «O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».

      Dice adunque l’autore, continuandosi al fine del precedente canto, che «Ora», cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen va per un segreto calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali dannati lá giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere usitata da gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati «calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte. «Tra ’l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè tra’ sepolcri, ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo mio maestro, ed io dopo le spalle», cioè appresso a lui, seguendolo.

      –«O virtú somma». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque: – «O virtú somma», nelle quali parole l’autore intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie dell’anima è somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli cerchi dello ’nferno, «Mi volvi», – menandomi, «cominciai, – com’a te piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami», cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che io disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La gente, che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi veder?». E, volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita: «Giá son levati Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra che tutti erano aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’ sepolcri sia, «guardia face», – per non esser veduto. E in queste parole par piú tosto domandar del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o no.

      «Ed egli a me». Qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda se quegli che sono dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio gli risponde che essi saranno serrati tutti dopo il di del giudicio. Ma Virgilio gli dice questo, accioché esso comprenda e il presente tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore, quando serrati saranno i sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché, quanto il fuoco è piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli risponde alla domanda. Dice adunque: – «Tutti saran serrati», questi sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafà», cioè della valle di Iosafà, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti, quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesù Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno; e chiamasi quella valle di Iosafà, poco fuori di Gerusalem, da un re chiamato Iosafà, che fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassù hanno lasciati», quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero», cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture sono, sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «communis terra», percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».

      Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro.

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