Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Giovanni Boccaccio

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e cosí questa ultima e piú profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti, caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio e ancora la pena apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere, l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione; s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi, li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s’imprieme questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano d’occupare con questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la sua origine conosciuta e dimostrata a noi.

      [Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole d’Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono figliuole d’Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo, il dimostra:

      Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,

      quas et Tartaream nox intempesta Megaeram

      uno eodemque tulit partu, ecc.

      E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:

      Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis

      apparent, acuuntque metum mortalibus aegris

      si quando lethum horrificum morbosque deum rex

      molitur meritis, aut bello territat urbes, ecc.

      E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra l’autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per li versi di Lucano si comprende, quando dice:

      Iam vos ego nomine vero

      eliciam, Stygiasque canes in luce superna

      destituam, ecc.

      Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí come per Virgilio appare, dove dice:

      … caeruleis unum de crinibus anguem

      coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit,

      quo furibunda domum monstro permisceat omnem.

      E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio dicendo:

      Eumenides tenuere faces de funere raptas, ecc.

      E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per Virgilio si può vedere:

      At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,

      infelix crines scindit Iuturna solutos, ecc.

      Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi versi:

      Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem

      obscoenae volucres: alarum verbera nosco, ecc.

      Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]

      [Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]

      [Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad Aletto appare per questi versi di Virgilio:

      Cui tristia bella

      iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.

      Odit et ipse pater Pluton, odére sorores

      Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,

      tam saevae facies, tot pullulat atra colubris.

      E un poco appresso séguita:

      Tu potes unanimes armare in praelia fratres

      atque odiis versare domos; tu verbera tectis

      funereasque inferre faces; tibi nomina mille,

      mille nocendi artes, ecc.

      A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi appare; e prima Virgilio dice di lei:

      Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,

      et pavor et terror trepidoque insania vultu, ecc.

      A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:

      Suffusa veneno

      tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro

      ore vapor, quo longa sitis morbique famesque

      et populis mors una venit, ecc.

      A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di Claudiano si può comprendere, dove nel libro De laudibus Stiliconis, dice:

      Quam penes insani fremitus, animique prophanus

      error, et undantes spumis furialibus irae,

      non nisi quaesitum cognata caede cruorem,

      illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,

      quem dederint fratres, ecc.]

      [Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere

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