Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3. Giovanni Boccaccio
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«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.
«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine. «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
«Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati, per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno, quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]
E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela nel secondo libro della sua Cosmografia scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’ quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo De historia naturali, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo: «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono Carnares. «Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «evello evellis», percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso, cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed io: – Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»? – la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si possono.
«Ed egli a me: – Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome ab «haeresis» et «arce», quod est «princeps», quasi «principe d’eresi». «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono; e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il quale sant’Agostino scrive Degli eresiarci, e delle qualitá de’ loro errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro, cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano, Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti,