e piú che Michelangelo, novantanove anni. Portò sua scuola al sommo subitamente. Il colore, come ognun sa, n’è pregio principale, e grande; ondeché qui forse sarebbe il luogo di gridare contro all’imitazione dagli stranieri, da que’ fiamminghi in particolare che ritrassero senza dubbio molto bene le loro splendide carnagioni settentrionali, ma perciò appunto non bene le meridionali, italiane, spagnuole e greche, piú belle e sole vere incarnate e piú pittoriche; ondeché, per uscir fuori d’Italia, sarebbe meglio andar a Spagna che non a Fiandra od Inghilterra. Tiziano ebbe una gran brutta amicizia, quella dell’Aretino. Salvo in ciò, egli pure fu gentile, dolce e felice uomo in patria ed alle corti di Carlo V e Francesco I; e fece pitture innumerevoli, e ne fu fatto ricco e molto onorato. Del resto, non primeggiò forse in Venezia, come i tre detti a Milano, Firenze e Roma. Furono poco minori di lui, oltre il Giorgione, anche il Tintoretto [1512-1594], e massime Paolo Veronese [1528? -1588]: e seguono piú o men lontani, il Bassano [1510-1592], Palma il vecchio [1518-1574], ed alcuni altri. – Finalmente, Antonio Allegri, detto il Correggio dal nome del suo nativo paese, visse poco [1494-1534], appena tre anni piú che Raffaello. E la vita di lui è quasi ignorata. Par che si trattenesse, e certo lavorò sempre nelle citta vicine a sua culla, Parma, Modena, Bologna. Dove, non essendo per anche una scuola fatta e determinata, egli, studiando da sé e su pochi e vari modelli, fecesi uno stile tutto proprio, e giá poco men che eclettico; come fu quello creato poi ne’ medesimi luoghi un cinquant’anni appresso da’ Caracci. Disegnator poco esatto, ma arditissimo e quasi scientifico, abbondò negli scorci, nel sotto in su, piú e peggio che Michelangelo stesso, giá soverchio in tali ricercatezze. Riman memoria del suo studiar solitario nella tradizione, che vedute le pitture di Raffaello prorompesse in quella esclamazione: – Anch’io son pittore; – la quale fu poi ancor essa consolazione ed inganno a tanti che se la ripeterono. Ma negano alcuni ch’egli uscisse mai da’ suoi contorni. E lá intorno pure fiori il Parmigianino [1503-1540], non dissimile. E gli scolari ed imitatori de’ due si confusero in breve nella vicina scuola di Bologna. – Fiorirono allora, benché non al paro della pittura, anche le due arti sorelle. Nell’architettura (civile o militare) primeggiarono, oltre Michelangelo e Raffaello ed altri detti, il Cronaca [-1509], Bramante [-1514], Giuliano e i due Antoni da San Gallo [-1517-1546], Sanmicheli [1484-1559], De’ Marchi [1490-1574], Tartaglia [1500-1554], Vignola [1507-1573], Paciotto [1521-1591], fra Giocondo [-1625?], e sopra tutti Sansovino [1570] e Palladio [1508-1580]. – Nella scoltura, oltre Michelangelo di nuovo e parecchi altri detti, Baccio Bandinelli [1490-1559], il Tribolo [1500-1550], e Benvenuto Cellini [1500-1570], principe degli orefici e gioiellieri di qualunque tempo; e Giovanni dalle Corniole, cosí detto per essere stato primo o principale a rinnovar l’arte dell’incider gemme in cammei ed in cavo. Finalmente, in questo tempo pure si svolse l’incisione in rame e in legno che dicemmo incominciata giá nell’etá precedente; e fiorironvi, oltre il Mantegna, il Francia, il Parmigianino, e Tiziano, Marcantonio Raimondi [1488-1546 o 1550], che incise sovente su disegni di Raffaello, Agostino Veneziano [intorno al 1520], ed altri. – Né lascerem l’arti senza accennar della musica, che ella pure sorse e crebbe dapprima esclusivamente e sempre principalmente italiana. Ma questa rimase per allora lontana dal suo sommo, incominciò allora solamente i suoi progressi. Noi ne vedemmo uno grande fatto nel secolo decimoprimo da Guido d’Arezzo; ed altri ne avremmo potuti notare ne’ secoli decimoterzo e decimoquarto. Nel decimoterzo, i nomi stessi delle composizioni poetiche, sonetti, ballate, canzoni, indicano ch’elle furon fatte per essere accompagnate dalla musica. Nel decimoquarto, abbiamo da Dante e Boccaccio tante menzioni di musica, che, in mancanza di monumenti, dobbiamo argomentare molto coltivata allora quest’arte; oltreché, resta memoria d’un Francesco Landino detto il «cieco», che fu incoronato a Venezia nel 1341, quasi contemporaneamente col Petrarca. Ma d’allora in poi lungo il secolo decimoquinto sorge un fatto curioso, e fors’anco utile a notare in quell’arte: che la musica italiana (probabilmente piana, ricca di melodie fin d’allora, ché tale è il genio nostro nazionale) fu oppressa da quella straniera e piú scientifica de’ fiamminghi o tedeschi. In Roma, in Napoli, nelle chiese, nelle corti tiranneggiaron questi; non si trovan guari mentovati allora altri maestri che questi. Franchino Gaforio [1451-1520?] pare essere stato il primo a restaurar la musica italiana, e dicesi prendesse dagli scrittori greci ed altri antichi gran parte di sua scienza, ma sembra da ciò stesso che fosse scienza o poco piú. all’incontro, dicesi sia stato artista vero ed ispirato il Palestrina [1529-1594]. Dico che si dice, perciocché né io né credo i piú degli italiani udimmo le melodie di lui; e noi abbiamo a invidiar agli stranieri l’uso di far sentire le musiche antiche. E dal Palestrina in poi rimase il primato dell’arte agl’italiani. Né è meraviglia; il sommo di quest’arte sta certamente nella melodia e nell’espressione, o piuttosto nella combinazione delle due, nel trovar melodie espressive; e il modello, il germe delle due non si trova guari in nessuna delle lingue settentrionali, né nel modo di parlarle né nelle inflessioni con cui si parlano; le quali sono od antimusicali del tutto, o molto men musicali che le italiane, e massime che le italiane meridionali. Ad ogni modo, lasciando i progressi tecnici fatti intorno alla metá del secolo decimosesto, noterem solamente, che di quel tempo sono i primi oratorii, inventati, dicesi, per quella congregazione di san Filippo Neri [1515-1596] da cui presero il nome. E di quel tempo pare la prima opera in musica, l’Orbecche di Cinzio Giraldi, stampata in Ferrara 1541. Insomma, tutte le invenzioni, quasi tutti i grandi progressi e i grandi stili e il sommo di quest’arte celestiale, sono italiani. Picciol vanto, ripetiamolo, questo primato nostro quando riman solo; ma bello e caratteristico esso pure, quando si trova nel secolo decimosesto congiunto con tutti gli altri di tutte le arti e tutte le lettere; quando concorre a dimostrar la fratellanza di tutte le colture, gli aiuti, le spinte ch’elle soglion ricevere l’une dall’altre a vicenda.
12. Il secondo periodo della presente etá in generale; rassegna degli Stati [1559-1700]. – Se è felicitá al popolo la pace senza operositá; ai nobili il grado senza potenza; ai principi la potenza indisturbata addentro, ma senza vera indipendenza, senza piena sovranitá; ai letterati ed agli artisti lo scrivere, dipingere, scolpire od architettare molto e con lode de’ contemporanei, ma con derisione de’ posteri; a tutta una nazione l’ozio senza dignitá, ed il corrompersi tranquillamente; niun tempo fu mai cosí felice all’Italia come i centoquarant’anni che corsero dalla pace di Cateau-Cambrésis alla guerra della successione di Spagna. Cessarono le invasioni, lo straniero signoreggiante ci parava dagli avventizi. Cessaron le guerre interne; il medesimo straniero ne toglieva le cause, frenava le ambizioni nazionali. Cessaron le rivoluzioni popolari; lo straniero frenava i popoli. Le armi, le sollevazioni che sorsero qua e lá, furono rare eccezioni, non durarono, non disturbarono se non pochi. Bravi, assassini di strada, vendette volgari, ed anche tragedie signorili o principesche, furono frequenti, per vero dire, ma tutto ciò non toccava ai piú; e poi eran cose del tempo, i nostri avi vi nasceano in mezzo, v’erano avvezzi. I piú degli italiani fruivan la vita, i dolci ozi, i dolci vizi, il dolcissimo amoreggiare o donneggiare. Noi vedemmo giá un’etá di grandi errori aristocratici, un’altra di grandi errori democratici: questa è degli errori aristocratici piccoli. Ma l’aristocrazia s’acquista e si mantiene coll’opere; non si corrompe solamente, si snatura coll’ozio; perdendo la potenza, la partecipazione allo Stato, non è piú aristocrazia, diventa semplice nobiltà. Dai campi e dai consigli dove s’era innalzata, la nobiltà italiana era passata alle corti. Così, per vero dire, pur fecero quelle di Francia e Spagna a que’ tempi; ma dalle corti elle facevano tuttavia frequenti ritorni ai campi di guerra ed ai governi, o almeno ai castelli aviti; mentre i nobili italiani non ebber guari di que’ campi o governi, e dimorando piú alle corti e nelle moltiplici capitali, vi poltrirono. Il peggio fu che non vi sentivano lor depressione, piegavansi, atterravansi beati. Spogli di potenza propria, consolavansi co’ privilegi, col credito all’insù, colle prepotenze e le impertinenze all’ingiù; spogli d’operosità, consolavansi con le ricchezze e gli sfarzi; degeneri, colle memorie avite. Non facean corpo nello Stato, ma tra sé; chiudevano quanto potevano i libri d’oro, quegli aditi alla nobiltà, che restano sempre spalancati quando la nobiltà non è un titolo illusorio, quando è aristocrazia. I principi, all’incontro, si facean un giuoco di avvilirla col moltiplicarla, di aggiungere titolati a titolati, privilegiati a privilegiati, oziosi ad oziosi. Insomma, fu un paradiso ai mediocri, che son sempre molti, e quando il vento ne soffia, son quasi tutti; de’ pochi ribelli al tempo, pochissimi penando s’innalzarono, or bene or male; i piú, penando