Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2. Balbo Cesare

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Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2 - Balbo Cesare

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in essa, ed in alcune altre che furono e prima e dopo tra’ papi e principi italiani. Ma noi, oltreché v’avremmo poco spazio, e che tali contese tra le potenze temporali e la ecclesiastica ne vorrebbon pur molto per essere bene spiegate e capite, confessiamo di porvi oramai poca importanza. Queste dispute, per qualche ecclesiastico o qualche affare che i tribunali civili ed ecclesiastici avocavano a un tempo a sé, per li diritti d’asilo nelle chiese, per istabilire od estendere il tribunale dell’Inquisizione, parvero, in vero, grossi affari a que’ tempi ove non n’eran de’ grandi; e son segni appunto di ciò. Ma ciò detto, non mi paiono piú importanti che tanti altri affari speciali di giurisprudenza o legislazione civile o militare o marinaresca, che tralasciamo per forza. Ché anzi, se abbiamo a dir tutto il pensier nostro, crediamo che parecchi di coloro i quali s’estendono in ciò, ciò facciano (a malgrado la noia propria e de’ leggitori) per rivolgergli a quel pochissimo che resta di tali dispute a’ nostri dí, ed in che essi pongono tuttavia un’importanza che noi non sappiamo assolutamente vedere. Non è la potenza ecclesiastica l’usurpatrice de’ nostri dí; tal non era nemmeno nel Seicento; giá difendevasi, indietreggiando dalle sue pretensioni antiche fin d’allora, ed ella si difende ed indietreggia ora piú che mai; ondeché, tutto ciò che si rivolge d’ire e d’attenzioni contro ad essa, sono ire ed attenzioni perdute contro a’ veri usurpatori. «Dividi e impera» è vecchio arcano d’imperio, e messo in pratica fino a ieri ed oggi. Ed egli implica e fa lecito e debito il suo contrario, l’arcano di liberazione, «uniamoci per liberarci»; uniamoci principi e popoli, nobili e non nobili, tutti gli educati, e gli ineducati stessi, educandoli; e militari e civili, e massime laici ed ecclesiastici, secolari e regolari, fino ai frati, fino ai gesuiti, fino ai piú esagerati, e giá colpevoli di lá o di qua, che vogliano unirsi a virtuosamente operar per la patria, fino a coloro che avessero perseguitati od anche calunniati non solamente noi, ma gli stessi amati da noi2. Piú attenzione forse meriterebbe, se ne avessimo luogo, una guerra tra Venezia e gli uscocchi, pirati dell’Adriatico [1601-1617], protetti o almen tollerati da casa d’Austria; un trattato fatto a Madrid [1617] vi pose fine. E l’anno appresso [1618] successe quella congiura che parve mirare a non meno che alla distruzione della repubblica; e che compressa, secondo l’uso di lei, con prontezza e misterio, resta dubbio quanto fosse vera e pericolosa, e se di semplici venturieri, o se promossa da Spagna, o se anzi da uno o due dei governatori spagnuoli in Italia che volessero ribellarsi e farsi essi signori. – Del resto, i due Stati spagnuoli, Milano e il Regno, peggiorarono via via. A Filippo II, il Tiberio della monarchia spagnuola, erano succeduti Filippo III [1598] e Filippo IV [1621], che ne furono poco piú che i Claudi o i Vitelli. Governaron per essi un duca di Lerma, un d’Uzeda e un conte duca d’Olivarez, via via piú assoluti a Madrid, al centro di quel grande imperio. S’imagini ognuno come governassero i viceré e governatori lontani. Depredavansi le entrate ordinarie, supplivasi con istraordinarie; vendevansi, ripiglianvansi i feudi, si alzavano, s’esageravano gli appalti, non si badava ai popoli ma all’erario, o piuttosto questo stesso non era se non un pretesto, una via per cui passavano le ricchezze, cioè, senza metafora, il sangue de’ popoli. Ma a che perdere spazio in tutto ciò? Quando anche n’avessimo piú, non potremmo far meglio che rimandar i leggitori all’immortal ritratto fattone dal Manzoni. Niuna storia, nemmen quella splendidissima di Botta, può arrivar a dare una cosí viva e giusta idea del disordine, delle prepotenze, delle depredazioni, delle pompe, degli avvilimenti in che giacquero i popoli italiani sotto al governo ispano-austriaco.

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      Nella edizione di novembre 1846 era qui quest’aggiunta, quest’eccezione: «(fino al giugno 1846)». Così ora nel 1850 la potess’io lasciare! Così poi ripentirmi, e riporla a luogo suo!

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      Non so trattenermi di notare che non ho mutata e non trovo da mutar una sillaba a questa pagina, scritta or son quattr’anni, nel 1846, e quando eravam lontani tutti di prevedere la rinnovazione di simili faccende.

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Nella edizione di novembre 1846 era qui quest’aggiunta, quest’eccezione: «(fino al giugno 1846)». Così ora nel 1850 la potess’io lasciare! Così poi ripentirmi, e riporla a luogo suo!

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Non so trattenermi di notare che non ho mutata e non trovo da mutar una sillaba a questa

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Non so trattenermi di notare che non ho mutata e non trovo da mutar una sillaba a questa pagina, scritta or son quattr’anni, nel 1846, e quando eravam lontani tutti di prevedere la rinnovazione di simili faccende.