Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12. Edward Gibbon
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Parrà forse cosa straordinaria che, imprendendo io a narrare l'invasione di un grande Impero, non abbia fatta menzione degli ostacoli che al buon successo de' conquistatori oppor si poteano. Perchè, comunque i Greci difettasero di valore, erano ricchi ed industriosi, e obbedivano ad un assoluto Monarca. Ma avrebbe fatto mestieri che a questo Monarca non fossero mancati, l'antiveggenza, finchè i nemici erano lontani, il coraggio, poichè gli ebbe alle coste dei suoi dominj. Avendo dimostrato di accogliere in atto di scherno le prime notizie venutegli intorno alla lega del proprio nipote co' Francesi e coi Veneziani, i cortigiani di lui gli persuasero essere verace questo scherno e figlio del suo coraggio. Non passava sera che al finir della mensa costui non mettesse per tre volte in rotta i Barbari dell'Occidente. Questi Barbari in vece non disprezzavano, e ben a ragione, le forze navali de' Greci: perchè i mille seicento navigli pescherecci di Costantinopoli64 avrebbero somministrati quanti marinai bastavano ad allestire una flotta capace di sommergere le galee venete, o certamente di chiudere ad esse l'ingresso dell'Ellesponto. Ma qual valevole difesa non diviene impotente per la trascuratezza d'un Sovrano, per la corruttela de' suoi Ministri? Il Gran Duca, o Ammiraglio, facea un traffico scandaloso, e quasi pubblico, delle vele, degli alberi da nave, de' cordami. Le reali foreste servivano soltanto alla caccia del Principe, il che aveasi per bisogno ben più rilevante; e gli eunuchi, al dir di Niceta, stavano di sentinella agli alberi, come se queste piante ad un culto religioso fossero consacrate. L'assedio di Zara, il rapido avvicinar de' Latini destarono finalmente Alessio dagli orgogliosi suoi sogni; ma quando la sciagura gli parve reale, inevitabile la credè parimente. La presunzione disparve, e all'abietta codardia, e alla disperazione die' luogo. Questi spregevoli Barbari accamparono impunemente a veggente della reggia di chi li scherniva; e il tremebondo Monarca non seppe che ricorrere ad un'ambasceria, il cui fasto, e minaccevole contegno, non velò agli occhi de' Francesi la costernazione prodotta dal loro arrivo. Gli Ambasciatori chiesero a nome di Cesare con quali mire i Latini avessero posto campo sotto le mura imperiali; se a ciò sinceramente gli avea mossi la brama di compiere il loro voto e far libera Gerusalemme, applaudire Alessio ai lor pietosi disegni, ed essere pronto a secondarli co' proprj tesori; ma se avessero ardito penetrare nel santuario dell'Impero, rendersi ad essi noto, che il loro numero, fosse stato anche dieci volte maggiore, dal giusto sdegno dell'Imperatore campar non poteali. Semplice e nobile si fu la risposta del Doge veneto e de' Baroni, «L'obbligo che ci siamo assunti, è difendere la causa della giustizia e dell'onore; disprezziamo l'usurpatore della Grecia, le sue offerte, le sue minacce. Noi dobbiamo amicizia, egli obbedienza, all'erede legittimo di Bisanzo, al giovine Principe che sta in mezzo di noi, e al padre di esso, l'Imperatore Isacco, a cui un fratello ingrato ha tolti il trono, la libertà, e persino il godimento di vedere la luce. Questo colpevole fratello confessi il suo delitto, implori la clemenza dell'uomo cui fece mortali offese; noi intercederemo, onde gli sia permesso di vivere nella pace e nell'abbondanza. Ma riguarderemo siccome insulto commesso contro di noi una seconda ambasceria, alla quale il ferro e il fuoco portati di nostra mano nel palagio di Costantinopoli, sarebbero la sola nostra risposta65.»
Dieci giorni dopo giunti a Scutari i Crociati, e come soldati, e come Cattolici, al passaggio del Bosforo si prepararono. Pericolosa impresa! Largo e rapido è questo canale; in tempo di bonaccia, la corrente dell'Eussino, potea portare in mezzo alla flotta, quel fuoco formidabile che si conosce sotto nome di fuoco greco; settantamila uomini schierati in battaglia stavano difendendo l'opposta riva. In sì memorabile giornata, che volle il caso contraddistinta da cheto aere e da cielo sereno, i Latini in sei spartimenti distribuirono il loro ordine di battaglia. Al primo, ossia all'antiguardo comandava il Conte di Fiandra, uno fra' Principi cristiani de' più poderosi, e temuto pel numero e per l'abilità de' suoi balestrai; il fratello di lui Enrico, i Conti di S. Paolo e di Blois, Mattia di Montmorency guidavano i quattro altri corpi alla pugna; e sotto il commando del Montmorency marciavano volontarj il Maresciallo e i Nobili della Sciampagna. Al Marchese di Monferrato, condottiero degli Alemanni e de' Lombardi, obbediva il sesto spartimento militare, retroguardo e corpo di riserva di tutto l'esercito. I cavalli di battaglia, sellati, e coperti delle lor gualdrappe che sino a terra scendevano, nelle barche piatte vennero collocati66. Dietro il proprio cavallo teneasi in piedi ciascun cavaliere, nascosto il capo nell'elmo, brandendo la lancia, armato di tutto punto. I sergenti e gli arcieri si posero entro i legni da trasporto, ognun de' quali era rimorchiato da una ben armata ed agile galea; laonde tutti questi sei spartimenti, senza incontrare nemici, nè ostacoli, il Bosforo attraversarono. Ciascun corpo, ciascun soldato non faceva altro voto che di essere il primo a sbarcare, altra deliberazione che di vincere o di morire. I cavalieri, gelosi d'affrontar essi i rischi più grandi, appena il poterono, si lanciarono armati nel mare, e coll'acqua che il loro fianco radea raggiunsero il lido. I sergenti67 e gli arcieri il loro esempio seguirono, gli scudieri, abbassati i ponti delle palandre, posero a terra i cavalli. I Cavalieri in arcione aveano appena incominciato ad ordinare gli squadroni e a mettersi colle lance in resta, quando i settantamila Greci che stavano ad essi a fronte, sparirono. Alessio diede l'esempio di questo scoraggiamento ai soldati non lasciando altro segnale di essersi trovato in quel campo, che una ricca tenda, dal cui spoglio soltanto i Latini compresero che contro un Imperatore avean combattuto. Fu risoluto giovarsi del primo terrore che comprese i nemici per forzare con doppio impeto l'ingresso del porto. Di fatto i Francesi presero d'assalto la torre di Galata68; intanto che i Veneziani si assumeano il più arduo cimento di rompere la sbarra, ossia catena tesa da questa torre alla riva bisantina. I primi sforzi a ciò parvero inutili, ma l'intrepida loro perseveranza la vinse: venti legni da guerra, quanto rimanea della greca marineria, vennero presi o mandati a fondo. Gli speroni delle galee69, o il loro peso, troncarono, infransero gli enormi anelli di quella catena; per lo che la flotta veneta vittoriosa, e senza scomporsi, gettò l'áncora nel porto di Costantinopoli. Tai furono i primi fatti, per cui i Latini con ventimila uomini che tuttavia ad essi avanzavano, si procacciarono i modi di avvicinarsi, per assediarla, ad una città che racchiudeva quattrocentomila uomini70, cui solamente qualche coraggio per difenderla avrebbe bastato. Un tale calcolo per vero dire suppone che la popolazione di Costantinopoli, sommasse in circa a due milioni d'abitanti; ma ammettendo ancora che
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Καθαπερ ιεερω, ειπειν δε και θεοψυτευτων παραδεισων εφειδοντο τουτωνι,
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Seguendo la traduzione del Vigenere, mi valgo del sonoro vocabolo di
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Per evitare l'espressione vaga di seguito o seguaci ec., ho adoperata, seguendo il Villehardouin la voce
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È inutile l'annotare che intorno a Galata, alla catena del porto ec., il racconto del Ducange è compiuto e minutamente esatto.
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La galea che ruppe la catena chiamavasi l'Aquila (
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