Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 9. Edward Gibbon
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V. La dottrina materiale degli Ebioniti, e i dommi fantastici dei Doceti erano proscritti e dimenticati; quando lo zelo, mostrato dai Cattolici, contro gli errori d'Apollinare, li forzò ad accostarsi in apparenza alla duplice natura di Cerinto. Ma invece di una alleanza momentanea, essi stabilirono, e noi crediamo ancora, l'unione sostanziale indissolubile ed immutabile d'un Dio perfetto con un uom perfetto, della persona seconda della Trinità con un'anima ragionevole ed un corpo umano. L'unità delle due Nature era sul principio del quinto secolo la dottrina dominante della Chiesa. Dalle due parti si confessava non potere le nostre menti, nelle lingue nostre, rappresentare, ed esprimere il modo di tale coesistenza; covava tuttavia una secreta animosità, ma implacabile, contro coloro che più temevano di confondere, e contro gli altri che più temevano di separare, la Divinità e l'Umanità di Gesù Cristo. Una religiosa frenesia da ambe le parti col sentimento dell'avversione ributtava l'errore a cui pendea la parte contraria, creduto il più funesto alla verità, non che alla salute. Uguale era l'inquietudine nelle due parti, uguale l'ardore a sostenere e a propugnare l'unione e la distinzione delle due Nature, e ad inventare formole e simboli di dottrina meno suscettivi di dubitazione o d'equivoco. Inceppati dalla povertà delle idee e del linguaggio, metteano a contribuzione arte e natura per trarne tutte le possibili comparazioni, e ciascuna di queste, usata a rappresentar un Mistero incomparabile, diveniva per la mente loro fonte di nuovo errore. Sotto il microscopio polemico, un atomo prende la statura d'un mostro, e le due Sette erano molto abili ad esagerare le assurde o empie conseguenze che dai principii degli avversari dedur si potevano. Per isfuggire gli uni agli altri, si gittavano in vie oscure e rimote sin a tanto che scoprirono con orrore i terribili fantasmi di Cerinto e d'Apollinare, che custodivano le opposte uscite del labirinto teologico. Non così tosto travedeano la luce ancor dubbia d'una spiegazione che li conduceva all'eresia, essi trepidavano e volgevano subito addietro il passo, precipitando nuovamente nelle tenebre d'un'impenetrabile ortodossia. Per discolparsi dal delitto o dall'accusa d'un orrore riprovevole, veniano spiegando le loro massime fondamentali, ne niegavano le conseguenze, si scusavano delle loro imprudenti proposizioni, e con grido unanime pronunciavano le parole di concordia e di fede. Ma sotto la cenere della controversia stava celata una scintilla quasi impercettibile, dalla quale i pregiudizi e la passione suscitarono in breve una fiamma divoratrice, e le dispute delle Sette d'Oriente, sulle espressioni26, di cui si valevano ad esporre i lor domini, scossero le fondamenta della Chiesa e dello Stato.
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Sta famoso nella Storia della controversia il nome di Cirillo Alessandrino, e dal suo titolo di Santo si apprende, che col trionfo finirono le sue opinioni e la sua Setta. Educato nella casa dell'Arcivescovo Teofilo, suo zio, avea contratta in questo alunnato ortodosso l'abitudine dello zelo, e l'amore della dominazione, e passati utilmente cinque anni di gioventù nei monasteri della Nitria, vicini alla sua residenza. Sotto la tutela dell'abate Serapione, s'era dato agli studi ecclesiastici con tanto ardore, che lesse in una notte i quattro Evangeli, le Epistole cattoliche, e l'Epistola ai Romani. Detestava Origene, ma svolgeva continuamente gli scritti di S. Clemente, di S. Dionigi, di S. Atanasio, di S. Basilio. Nella teorica, e nella pratica della disputa, la sua fede si rassodava, e si assottigliava l'ingegno; e già cominciava a tessere intorno la sua cella la fina e fragile tela della teologia scolastica, apparecchiando quelle opere d'allegoria e di metafisica, gli avanzi delle quali raccolti in sette verbosi e prolissi tomi in foglio, posano in pace al fianco dei lor rivali27. S. Cirillo predicava e digiunava nel deserto; ma, giusta il rimprovero fattogli da un suo amico28, i suoi pensieri stavano sempre fissi sul Mondo, e l'ambizioso eremita non fu che troppo sollecito ad obbedire alla voce di Teofilo, che lo chiamava alla vita fragorosa delle città, e dei Sinodi. Coll'assenso dello zio attese alla predicazione, e presto ottenne il favor popolare. La sua bella figura adornava il pulpito, la sua voce armoniosa rimbombava nella cattedrale. Stavano i suoi amici in un posto, da cui diriger potevano, e assecondare gli applausi della Congregazione29, e vari scrivani raccoglievano rapidamente i suoi discorsi, i quali per l'effetto, non per la composizione, ponno paragonarsi a quelli degli Oratori d'Atene. Colla morte di Teofilo crebbero, e s'avverarono le speranze del nipote. Era diviso d'opinione il Clero di Alessandria: i soldati e il generale favoreggiavano l'Arcidiacono; ma dal clamore e dalla violenza della moltitudine fu nominato quegli che ella prediligeva, e S. Cirillo salì sulla sede occupata già trentanov'anni prima da S. Atanagio30.
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Non era indegna della sua ambizione la ricompensa. Lungi dalla Corte, Capo dell'immensa Metropoli, il patriarca d'Alessandria, che così era nomato, aveva a poco a poco usurpata l'autorità ed il grado d'un magistrato civile. Era egli il dispensatore delle pubbliche e private elemosine della città. La sua voce suscitava, o calmava le passioni del popolo. Grannumero di fanatici Parabolani31 addimesticati nelle loro giornaliere azioni agli spettacoli di morte, ciecamente obbedivano ai suoi comandi, e la potenza temporale di questi Pontefici cristiani mettea paura ed astio ai prefetti d'Egitto. Tutto ardore contro gli eretici, cominciò Cirillo il suo pontificato, opprimendo i Novaziani, che pur erano i più innocenti e pacifici fra tutti i Settari. Parvegli un atto giusto e meritorio l'interdirne il culto religioso, e non si avvisò d'incorrere la taccia di sacrilego, confiscandone i vasi sacri. Le leggi de' Cesari e dei Tolomei, ed una prescrizione di sette secoli dalla fondazione d'Alessandria in poi, assicuravano la libertà del culto, e i privilegi ancora dei Giudei, già moltiplicati fino al numero di quarantamila. Senza veruna sentenza legale, senz'alcun ordine dell'imperatore, il patriarca, fattosi condottiero d'una plebe sediziosa, venne, sul far del giorno, ad investire le sinagoghe. Inermi gli Ebrei, ed assaliti all'improvviso, non poterono fare resistenza: furono rasi i luoghi dove si congregavano ad orare, e il vescovo guerriero, dopo aver conceduto alle sue truppe il saccheggio degli averi, cacciò dalla città il resto di quella miscredente nazione. Forse egli allegò l'orgoglio che aveano della loro prosperità, e l'odio mortale che portavano ai Cristiani, dei quali aveano poco stante versato il sangue in una sommossa eccitata a caso o a bella posta. Simili delitti meritavano la correzione del Magistrato, ma in quest'aggressione furono confusi gl'innocenti coi rei, e perdette Alessandria una colonia ricca ed industriosa. Lo zelo di S. Cirillo lo condannava alle pene della legge Giulia; ma in un governo debole, in un secolo superstizioso, era egli sicuro dell'impunità, e poteva anche aspettarsi elogi. Si dolse Oreste, prefetto dell'Egitto; ma i ministri di Teodosio posero troppo presto in dimenticanza le sue giuste lagnanze, e non se ne risovvenne che troppo un sacerdote, che simulando con affettazione di perdonargli, non cessava d'odiarlo. Un giorno, mentre passava quegli per la strada, un drappello di cinquecento monaci della Nitria dieder l'assalto al suo carro; alla
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Due prelati dell'Oriente, Gregorio Abulfaragio, primo Giacobita di quella parte del Mondo, ed Elia, metropolitano di Damasco, addetto alla Setta di Nestorio (Vedi Asseman,
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La Croze (
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Chi gli fa questo rimbrotto è Isidoro di Pelusio (l. I,
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Socrate (lib. VII, 13) chiama un grammatico διαπυρος δε ακρατης του επισκοπου κυριλλου καθεστως, και περι το ακροτους εν ταις διοδασκαλιαις αυτου εγειρειν ην σπουδαιοτατος, un uditore del vescovo Cirillo che assisteva con fervore alle sue prediche, ed era tutto intento a suscitargli applausi.
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Socrate (l. VII, c. 7) e Renaudot (
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I