La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I. Various
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Dio ci mandò, o signore, il Conte di Cavour (diciamolo a costo di pagare cinquanta centesimi a Rabagas, come nella commedia del Sardou) Dio ci mandò il Conte di Cavour, appunto perchè la rivoluzione italiana non si perdesse più ad almanaccare a priori di monarchia e di repubblica, di tradizioni storiche e di profezie letterarie, di federazione e di unità, ma tratta fuori da tutti i vecchi solchi, nei quali s'era malamente e le tante volte smarrita, uscisse finalmente dalla catalessi dei fanatici e dei solitari ed entrasse in un periodo di effettuale realtà, contasse sul possibile ed anche sull'osare a tempo, ma non farneticasse più sui milioni d'armati, che abbiano a sbucar di sotterra, su cataclismi, che abbiano a subissar mezzo mondo, su idealità vaghe e in tale contrasto con tutto il fuori di noi da farci parer sempre ubbriachi e sonnambuli, che battono capate in ogni spigolo di muraglia, o eroi metastasiani che trinciano l'aria col brando, ma non confidano che nella clemenza delle stelle.
Credete voi che in Italia ci volesse poco a persuadere d'un simile trapasso dal regno dei sogni a quello della realtà i milioni di Arcadi e d'analfabeti, dei quali Pasquale Villari potè tirare una somma spaventevole anche quattordici anni dopo?
Quando il Conte di Cavour inaugurò nel Piemonte quella politica di egemonia nazionale, che ha fatto l'Italia, non era forse nella sua mente alcun disegno preventivamente fissato con linee troppo rigide. Pei radicali e gli ultra-democratici ciò costituiva la sua grande inferiorità rispetto a loro, e fu invece la sua originalità e la sua forza. Amava con passione la patria, e due cose tenea per certissime: l'impotenza del riformismo dottrinario e del rivoluzionarismo alla Mazzini, e la necessità che il Piemonte s'inalzasse tanto nell'opinione pubblica europea da imbrigliar esso la rivoluzione a vantaggio della sua politica e da poter trattare da pari a pari con la diplomazia, nonostante che il fine della politica piemontese fosse quello di stracciarle sul muso i suoi trattati e di sconvolgerle e rovesciarle il maggiore di que' suoi accomodamenti posticci del 1815, alla perpetuità dei quali, con una boria non meno pazza di quella dei rivoluzionari di mestiere, era solita d'aggiustar piena fede.
Una cosa sola, del resto, m'è sempre parso ch'egli, al pari di Carlo Alberto e di Cesare Balbo, considerasse come assoluta: la necessità di cacciar l'Austria dall'Italia. Quanto al programma unitario, però, non è vero ch'egli del tutto lo respingesse. Nel 1856 vide a Parigi Daniele Manin, che gli divisò il suo nuovo programma: «Indipendenza, Unità e Casa di Savoia.» Lo giudicò alquanto utopistico, ma già i grandi risultamenti morali e politici da lui potuti ottenere nel Congresso di Parigi, avevano talmente slargate le sue speranze, che nell'anno stesso in un segreto colloquio col Lafarina il quale era tutto inteso, insieme col Manin, col Pallavicino e quindi con Garibaldi, a fondare su quel programma una Società Nazionale da surrogare alla Giovine Italia del Mazzini: «ho fede, gli disse, che l'Italia diventerà uno Stato solo e che avrà Roma per sua capitale, ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione.
«… Faccia la Società Nazionale; se gli Italiani si mostreranno maturi per l'unità, io ho speranza che l'opportunità non si farà lungamente attendere, ma badi che dei miei amici politici nessuno crede alla possibilità dell'impresa. Venga da me quando vuole, ma prima di giorno e che nessuno la veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento e dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro e dirò: non lo conosco».
Eccolo anche cospiratore. Avea tutte le corde al suo arco e, contro il suo solito, si vantò appunto d'aver cospirato colla Società Nazionale nel suo secondo gran discorso su Roma capitale. In Piemonte, come associazione consentita dalle leggi, la Società Nazionale fu pubblica; segreta invece nelle altre parti d'Italia, essa però non adottò nessuna delle forme delle antiche sètte, nè sottopose gli adepti a nessun altro vincolo morale, salvo accettare il programma: «Indipendenza, Unità e Casa di Savoia». E che una cospirazione politica, la quale si proponeva di raccogliere in una nuova concordia le sparse forze del paese e ai Mazziniani, in compenso della Monarchia, offriva l'unità nazionale, ai conservatori liberali, in compenso dell'unità, offriva la monarchia, a tutti l'indipendenza dallo straniero, che una cospirazione politica, dico, dovesse contrapporre alle antiche sètte un nuovo Credo molto determinato, si capisce bene.
Ma come avrebbe potuto il Conte di Cavour vincolarsi palesemente altrettanto? Non andrà un anno poco più, e all'ombra dei grandi alberi di Plombières sentirà offrirsi l'alleanza francese e la guerra immediata a prezzo d'una confederazione di tre Stati sotto la presidenza del Papa.
E che cosa sarebbe avvenuto dell'Italia, s'egli avesse rifiutato? A buon conto, da un progetto impossibile di confederazione uscirono Magenta e San Martino, e dalla guerra malamente troncata a Villafranca uscì l'unità italiana.
Ma dicono non soltanto gli avversari del Conte di Cavour, bensì altri molti: «No; l'unità politica dell'Italia s'è fatta malgrado il Conte di Cavour, e s'è fatta perchè l'unità era la grande, la vera, l'unica tradizione di tutta la storia italiana».
Non so se il Conte di Cavour, ma tutti, dal più al meno, siamo un po' passati per questa fisima; tutti, dal più al meno, siamo colpevoli d'aver bruciato qualche granello d'incenso rettorico a questa fisima; alla quale si contrapponeva poi un'altra scuola, cattolico-liberale o razionalista e repubblicana, che nella storia d'Italia pretendeva invece a trovare la tradizione federale. Non ne facciamo colpa a nessuno; forse anzi è un merito patriottico. Chi mai prima del 1859 poteva occuparsi di storia d'Italia senza un sottinteso politico? e questo sottinteso non dovea essere il programma del proprio partito? Perocchè v'ha bensì mia verità storica, ma purtroppo vi possono essere pure tante interpretazioni soggettive, quanti sono gli storici. Dio mi guardi dal dire che con la storia alla mano si possa ugualmente provare il sì ed il no, ma certo è che nell'immenso arsenale dei fatti della storia si possono trovare argomenti per tutte le cause, armi offensive e difensive per tutti i partiti, e sarebbe facile citarne esempi, specie fra gli scrittori di nostra storia contemporanea, italiani e stranieri. C'è insomma una rettorica dei fatti e secondo il modo di aggrupparli e farli apparire, ci sarebbe talvolta da credere, che si possano scrivere su documenti identici due storie di spirito diametralmente opposto, e da dar ragione a Beniamino Constant, quando diceva: «Io ho dieci, venti, quarantamila fatti e posso valermene a volontà». Vi pare scetticismo questo? No, signore. È servirsi della nostra ragione, poichè Dio ce l'ha data, ed è partendo da questo savissimo scetticismo, nota un grande scrittore inglese, che la civiltà moderna ha potuto correggere in parte quei tre massimi errori fondamentali, che, in passato, ci rendevano in politica così ignavi, in scienza così credenzoni, in religione così intolleranti.
Nel caso nostro non c'è in realtà nella storia d'Italia, fino almeno alla fine del secolo XVIII, nè una tradizione unitaria, nè una tradizione federale.
Ma eccovi gli uni a citarvi (per lo più pigliano le mosse di lontano) oltre alla forma allungata della penisola, alla varietà delle razze, che la popolarono, non appena divenne abitabile, alle indoli e costumi diversi, tutti indizi repugnanti a unità, le antiche federazioni italiche, anteriori a Roma, e resistenti per tanto tempo alla sua conquista, l'esperimento tipico, vale a dire, la prima pietra angolare della tradizione federale; ed eccovi gli altri a ribattere, non senza ragione, che quegli argomenti etnografici e morali non provan nulla, perchè di troppe altre nazioni unitarie si potrebbero addurre, e la penisola, che il mar circonda e l'Alpe, compensa ampiamente colla salda certezza de' suoi confini i pericoli della sua configurazione. Quanto alle prime federazioni italiche, circondate, com'erano, di popoli nomadi e selvaggi, se mai esprimevano qualche cosa, certo esprimevano piuttosto una rudimentale tendenza all'unità, la quale di fatto si compì col formarsi dello stato di Roma.