La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I. Various
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I - Various страница 4
Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini geografici. Ma fuori di questo, e rifacendoci al suo concetto politico, egli invoca la calata d'un Imperatore, affinchè riconduca la pace, quella pace imperiale, che è quanto dire universale, in cui forse abbozzava un pensiero di fraternità umana. L'ideale suo grande è la pace; sono sempre le discordie politiche, ch'egli flagella, e gli pare che cesserebbero d'imperversare, se l'Imperatore ritornasse alla sua Roma. Quando sospira la venuta di Arrigo VII, Dante sa bene che esso non verrà a fare l'unità italiana. V'ha anzi chi ha persino creduto che
Dante sperasse in detta occasione una confederazione. Non credo. Egli non ha sperato e voluto che la pace, tant'è che non altro consiglia a popoli e principi; e, il solo mezzo di mantenerla, è per lui il riconoscimento dei diritti dell'Impero. Dante afferma bensì la nazionalità italiana, ma non discute l'assetto politico della nazione: per lui Roma è la sede dell'Impero, la monarchia universale è necessaria siccome istituita da Dio per la pace del mondo, senza cui l'uomo non può conseguire il proprio fine e la beatitudine eterna. Oltrediché quella monarchia è per lui la continuazione e il perfezionamento dell'Impero Romano. Così Dante è nelle sue idee e nel suo tempo.
Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce esso pure nell'idillico:
Io vo gridando: pace, pace, pace;
il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e Caino.
Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi, abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria, superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non comprenderli e svisarli del tutto.
Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei, quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato, non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di lontano accennasse ad una impresa italiana.
In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo II di Savoia canti in un sonetto:
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;
che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana compiutasi fra il 1860 e il 1870?
Meno che mai mi pare di scorgerli nelle ambizioni di qualche signore o principe che tentò in Italia slargare la sua signoria o il suo principato. Mastino della Scala corre da Verona sino quasi alle porte di Firenze, ma ivi è fermato dalle forze unite di Firenze e di Venezia, e giuoca in questa impresa tutta la potenza della sua casa. Gian Galeazzo Visconti pare vicino a diventar padrone di quasi tutta Italia, ma se la piglia con Firenze, e una morte repentina sbarazza la gloriosa città di questo terribile nemico; Ladislao di Napoli tenta uguale impresa ed una morte molto opportuna la tronca anche a lui, il che facea dire a quella linguaccia del Machiavelli: «la morte fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico e più potente a salvarli che alcuna loro virtù».
Comunque, finite così, queste imprese non provano nè pro nè contro la tradizione unitaria o federale.
Altro è di Valentino Borgia. Il romanzo francese del Blanquet ha però un bel titolarlo roi d'Italie, ma che vuol egli in sostanza? Egli mira a fondare la dinastia dei Borgia in un regno dell'Italia centrale, e forse a rendere ereditario il papato. Il progetto era grandioso; non dico di no. Era l'ultimo perfezionamento del nepotismo politico pontificio; ma troppo in opposizione colla costituzione stessa del Papato e colle condizioni dell'Italia da poter riescire e non riescì, nonostante l'energia diabolica e la mancanza di scrupoli dei due uomini, il Papa e il Duca Valentino, che cercarono d'attuarlo.
Resta la Casa di Savoia, la cui fortunata ambizione fino ad Emanuele Filiberto, che fissa la capitale a Torino, non si sa da qual lato delle Alpi inclinerà. In appresso è già molto ch'essa possa bilanciarsi con una abilità ed un coraggio singolare fra Francia e Spagna e tra i due contendenti ingrandirsi. L'indizio maggiore dei suoi futuri destini sta nella grandezza dei suoi disegni e dei suoi propositi e, direi quasi, nella sproporzione stessa, che è fra questi e le sue forze e l'estensione del suo territorio. Ma più che tutto sta nell'aver l'armi in mano e nell'adoprarle sempre, nel valor militare e nella stretta unione fra principi e popolo. Affinchè però comincino ad avverarsi per essa i vaticinii dei pensatori, degli uomini di Stato e dei poeti, e gli oroscopi che le predicono:
La tua stirpe dall'Alpi native
Scender deve cogli anni e col Po,
bisognerà aspettare che una coscienza nazionale spenta nei tre secoli di servitù, si sia rifatta in tutto il popolo italiano, e che la meteora napoleonica passi; bisognerà aspettare che dopo essere stato il Piemonte travolto esso pure nella reazione, l'eccesso di questa susciti in Carlo Alberto il misterioso Amleto vendicatore; bisognerà aspettare che la rivoluzione italiana si svolga e che, colle insurrezioni del 1820 e 21 sia decisa irrevocabilmente la rivalità delle due monarchie italiane e risolto in modo definitivo che la direziono della rivoluzione debba esser presa dal nord, anzichè dal sud della penisola.
Allora accadrà questo fatto straordinario che per due volte l'Italia stessa si offre ai Savoia, nel 1831 per bocca di Giuseppe Mazzini, repubblicano unitario, che si dichiara disposto a rinunciare alla repubblica, purchè Carlo Alberto faccia l'unità d'Italia e gli dice: «a questo patto siamo tutti con voi; se no, no;» nel 1856 per bocca di Daniele Manin, repubblicano federale, che, rinunciando alla