La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892. Various

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La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892 - Various

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“mandato di comparizione„, e il giorno fissato compariva per la moglie il marito, che riconosceva l'errore e pagava la multa. Così s'andò innanzi un bel po'; ma più tardi dovettero le donne, ammaliziate, cominciare quelle contestazioni, accennate dal novelliere, e naturalmente omesse nel protocollo del notaio. Le inquisizioni si fanno più rare, le condanne meno frequenti e i mariti che compariscono principiano a negare la reità delle mogli, con validi argomenti: una è troppo vecchia perchè possano imputarsele siffatti trascorsi, un'altra era in casa quel tal giorno a quella tale ora, una terza è in lutto e così via… E il protocollo si chiude quasi senza registrare più nessuna condanna.

      La Signoria e il giudice prima di lei si son dati per vinti; ma non senza sospetto che quelli ufficiali, quei notai, deputati all'odioso ministero, non si fossero lasciati vincere dal fuoco di qualche bell'occhio, dalle carezze di qualche voce lusingatrice. Ahimè nelle coperte della Prammatica di quel tempo, leggiamo la confessione, lo sfogo d'un cuore innamorato, prezioso documento umano fra le pedanterie curialesche degli Statuti. Udite:

      Li dulci canti e le brigate oneste

      Gli uccelli, i cani e l'andar sollazzando,

      Le vaghe donne, i templi e le gran feste

      Che per amore solea ir cercando.

      Ora fuoco mi sono, oimè moleste,

      Quantunque vengo con meco pensando

      Che tu dimori di qui or(a) lontana

      Dolce mio bene e speme mia sovrana!

      Le donne avean trovato alleati nella famiglia del Giudice di ragione: la loro causa era vinta!

      Ma per poco, giacchè quasi periodicamente si tornò ad infierire contro la vanità femminile, e altre bufere scoppiarono, sempre di breve durata. Anche tremendi avversari ebbero ne' moralisti che nei trattati del Governo della famiglia, seguitavano a battere cotesto tasto (valga l'esempio del Palmieri); peggiori nemici ne' frati, invasi dal furore di purgare il mondo dai peccati.

      Frate Bernardino da Siena nel 1425 continuò a Perugia quei bruciamenti delle vanità che l'anno innanzi aveva iniziato a Roma, facendo un gran falò di “capelli posticci e contraffatti, d'ogni lasciva portatura, di balzi da scuffie„, dadi, carte, tavolieri “e altre cose diaboliche„, preludendo alle grandi fiammate che nel 1497 fece a Firenze il Savonarola, e che gli furono di pessimo augurio. Ma fra tanti oppositori, non mancavano i buoni avvocati. Nell'aprile 1461 un predicatore che aveva vociato dal pergamo in Santa Croce contro le donne, ricorse alla Signoria, e nel Consiglio dei Richiesti si trattò, nientemeno, di proibire la moda. Ma Luigi Guicciardini, padre al grande storico e politico, disse aver risposto a un milanese, giudicante a sproposito dell'onestà delle donne fiorentine dall'abito sfoggiato e dall'incedere, che se l'abito parea disonesto, elleno erano a' fatti assai diverse48.

      VIII

      Ma queste leggi suntuarie, ritoccate o come oggi direbbero “rimaneggiate„ ogni momento, più che offendere le donne colpivan la borsa dei loro mariti; nè, giova notarlo, si restringevano agli ornamenti, sibbene frenavano o volevan frenare anche il lusso e l'abbondanza delle nozze, dei battesimi, dei conviti e dei funerali. I cortei nuziali non potevano eccedere il numero di dugento persone. I sensali de' matrimoni dovevano denunziare innanzi i nomi degl'invitati. Le donora alla sposa eran regolate dalla legge, e così le cerimonie nuziali; il cuoco “il quale dovrà apparecchiare per qualche sposalizio„ era tenuto a rapportare all'ufficiale del Comune il numero delle vivande e dei piattelli, e le vivande non potevano essere più di tre: non più di sette libbre di vitella, e i capponi, i paperi o gli anitroccoli permessi dagli statuti. Del pari eran regolate le esequie, il numero dei torchi di cera, le vesti dei morti e dei congiunti che seguivano il funerale: i doni dei battesimi… insomma ogni benchè menoma cosa49. Chi contravvenisse a tali disposizioni, condannato a multe assai gravi.

      Perchè il Comune, anche allora, cercava dovunque argomenti per tasse, gravami e balzelli, e lo studio dei cittadini, massime di quei furbi mercanti, era tutto in cercare di alleggerirsi delle gravezze, di rubare con qualche onesta licenza50.

      “Il Comune ruba tanto altrui, che io posso ben rubar lui„, è un dettato antico riferito dal Sacchetti51; il quale anche lamenta le lungaggini nelle pratiche del Comune, perfino verso chi volea donargli le proprie castella52. Ciascuno tirava l'acqua al suo mulino, dice Marchionne Stefani, e anch'egli aveva il mulino suo53. S'ingegnavano tutti a difendersi dalle gravezze e com'è sempre usanza, scrive quel cronista, “gli animali grossi e possenti saltano e rompono le reti„.

      Anche Francesco Datini, accostandosi a quelli che tenevan lo Stato, provvide a' casi suoi, in quegli anni nei quali “le guerre combattute con le armi de' mercenari e le paci fatte a furia di denaro esigevano che la imposta si riscotesse in un anno dieci e quindici volte54„. Chi non potea con le amicizie e i favori, ci riusciva con l'astuzia, come Bartolo Sonaglini che, essendosi per porre molte gravezze, scendeva ogni mattina sull'uscio di casa e contava a tutti le sue miserie, dicendo: “Oimè, fratel mio, io son disfatto.„ “E' mi converrà o dileguarmi dal mondo o morir prigione„55; onde quando vennero alla partita di lui ciascuno dicea: Egli è diserto, e guardasi per debito; e l'un dicea: E' dice il vero, chè pure una di queste mattine non ardiva d'uscir di casa. E l'altro dicea: E anco così disse a me… Sia come si vuole, dicono gli altri, e' si vuole trattar secondo povero, e tutti a una voce gli posono tanta prestanza, quanta si porrebbe a uno miserabile, o poco più.„ Fatte le prestanze e passato il pericolo, Bartolo cominciò a uscir fuori e andava dicendo d'esser per accomodarsi coi creditori; e così, a furia di ciance, si liberò dalle prestanze, “dove molti altri più ricchi di lui ne rimasono disfatti„.

      IX

      Già i tempi maturavano. Dell'antica e proverbiata semplicità, in tanta sete di guadagni, rimanevano monumento vivente, ma pur rispettato, soltanto quei vecchioni di cui Donato Velluti ci porge uno stupendo ritratto, vivo e vigoroso come una figura di Andrea del Castagno.

      “Bonaccorso di Piero, fu uno ardito, forte e aitante uomo, e molto sicuro nell'arme. Fece di grandi prodezze e valentie, e sì per lo Comune e sì in altri luoghi. Tutte le carni sue erano ricucite, tante ferite avea avute in battaglie e zuffe. Fu grande combattitore contr'a Paterini e Eretici… Era di bella statura, di membra forti e bene complesso. Vivette ben 120 anni, ma ben 20 anni perdette il lume, innanzi morisse, per vecchiaia. Fu chiamato Corso, e benchè fosse così vecchio, udii dire che la carne sua avea sì soda, che non si potea attortigliare, e se avesse preso qualunque giovane più atante in su l'omero, l'avrebbe fatto accoccolare. Intesesi anche bene di mercatanzia, e fecela molto lealmente; intanto era creduto, che venuti i panni melanesi in Firenze da Melano (de' quali molti ne faceano venire) e tutti gli spacciava innanzi fossono aperte le balle; molti ne faceano tignere qui, e perch'era sì diritto, udii dire che un Giovanni del Volpe loro fattore veggendo sì grande spaccio di detti panni, pensò nella tinta fare avanzare più la compagnia, e più debolmente, e con meno costo gli facea tignere; di che essendo passato un tempo i detti panni non avevano quel corso soleano: di che cercando la cagione, trovarono che era stato per la sottilità del detto Giovanni, di che egli il volea pure uccidere.

      “Il detto Bonaccorso avendo perduto il lume, il più si stava in casa. Avea di dietro al palagio di Via Maggio… un verone lungo quanto tenea il detto palagio, in sul quale rispondea tre camere dal lato di dietro, per le quali egli andava, e tanto andava in qua e in là ogni mattina, che facea ragione essere ito tre o quattro miglia, e fatto questo asciolvea, e l'asciolvere suo non era manco di due pani, e poi a desinare mangiava largamente, perocchè era grande mangiante: e così passava

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<p>48</p>

Pellegrini F. C. – Agnolo Pandolfini in Giornale Storico della Lett. It., fasc. 1-2, 1886 a pag. 49.

<p>49</p>

Inventario e Regesto dei Capitoli del Comune, pag. 103-108.

<p>50</p>

Pellegrini, op. cit., pag. 45.

<p>51</p>

Nov. 146.

<p>52</p>

Nov. 204.

<p>53</p>

Mazzei, I, LVIII.

<p>54</p>

Mazzei, I, LVIII.

<p>55</p>

Sacchetti, nov. 148.